Sunday, November 6, 2016

Il principio di incomunicabilità.

Quando dice che una se le sente, le cose.
Stamattina mi sono svegliata, ho fatto una degna, diciamo pure degnissima colazione e poi con calma, molta calma, mi sono preparata per andare a una conferenza che mi aveva segnalato una mia amica.
Quando all'ora in cui dovrei essere sul posto sono ancora a casa sotto la doccia, c'è qualcosa che non torna o che torna molto bene. Dipende dai punti di vista.
Se poi si considera che a evento iniziato da mezz'ora, anziché correre mi sono fermata a fare una seconda colazione, come se non ne avessi già fatta una degnissima, allora gatta ci cova ( i gatti non mi piacciono, ma talvolta sono utili per i detti, anche se non mi piacciono neppure loro).
Quando sono arrivata sul posto la mia amica, in ritardo pure lei, mi aspettava fuori. 
Il luogo in cui era stata allestita la conferenza era troppo piccino per la quantità di gente e quindi alcune seggiolone stavano fuori dalla porta, luogo in cui né si vedevano le persone che parlavano né si sentivano.
Essendoci a pochi metri da lì un comodo divano, ho pensato bene di utilizzarlo.
Poi però ho visto una certa quantità di persone che usciva e non capendo se stesse già finendo la conferenza mi sono alzata, con un certo sollievo. Sì, pur non avendo ascoltato una sola parola, ero contenta di andarmene.
Ma invece non era giunta la mia ora. La conferenza procedeva e per di più si erano liberate delle ottime seggioline all'interno. Ne ho occupata una. Mi sono tolta il cappottino e la borsina, che avendo una catenella ha fatto molto rumore (eh eh).
Dopo tre o quattro minuti, forse meno, ho cominciato a muovere il culino sulla sedia. Una signora parlava e io non riuscivo a capire una parola, come se parlasse giapponese o cinese o qualunque altra lingua, tanto non ne conosco punte, quindi ci si può sbizzarrire senza andare a scomodare l'oriente. Comunque parlava italiano. Nella saletta minuscola (perché mai non l'hanno fatta in un posto più grande) c'era una cappa di noia e di pesantezza che impediva alle mie orecchie di comprendere alcunché. Mi sono voltata verso la mia amica dietro di me facendole capire a gesti che se andava avanti così me ne sarei andata a breve. La signora fra noi ha fatto una smorfia molto molto infastidita, come se i miei movimenti nell'aria potessero creare interferenze nel suo condotto uditivo. Mi è venuta voglia di tirarle i capelli.
Tempo altri due minuti e ho pensato che avrei preferito essere a casa a lavorare e questo è stato l'inequivocabile segnale che me ne dovevo andare immediatamente. Perché se una cosa mi fa pensare che preferirei lavorare piuttosto che stare lì, vuol dire che mi sto torturando inutilmente.
Ho fatto scorrere i miei occhi su quella platea di donne, perché l'evento era una di quella roba che viene definita 'al femminile', indicando con tale termine quelle situazioni in cui si celebrano donne che hanno cambiato il mondo con la loro attività, che ci hanno provato e quelle che tutt'ora ci provano. 
C'erano solo due uomini, che si sfregavano i capelli e sospiravano annoiati.
E poi c'ero io che sono una talpa e che guardando tutte quelle donne molto serie e impegnate ho pensato (oltre a quella cosa terribile di preferire il lavoro) 'che ci faccio qui? Io sono una che dipinge paperino'.
Mi sono alzata, facendo un po' di rumore per disturbare di proposito quella signora infastidita, ho salutato la mia amica e me ne sono andata. Che felicità.
In strada, appena sono uscita, si è alzato un vento fortissimo che prometteva una grande pioggia e in confronto all'aria ferma e pesante che avevo respirato lì dentro, mi è parsa una cosa bellissima. Ho quasi corso in direzione di casa, come se qualcuna di quelle persone potesse rincorrermi.
Arrivata a casa il cielo mi ha disegnato un arcobaleno in due finestre, perché oltre al principio di incomunicabilità, ce n'è uno di giustizia e di comprensione nei confronti di talpe sfavollate.
Di quel desiderio di lavoro che mi era venuto lì dentro ovviamente si è persa traccia, anzi penso che proprio non mi merito di lavorare dopo una tale tortura, ma solo di divertirmi.
Semmai, di dipingere paperino.
Perché lui sì che vale il mio tempo e la mia attenzione.
Lo so, forse non è ammirevole, ma che ci posso fare se la talpa è fatta di questa pasta qui?
Bisogna accettare i propri limiti e le orecchie che si chiudono. 
Perché questo ho scoperto oggi, che le mie orecchie e il mio cervello si chiudono quando si annoiano e non c'è sforzo che possa convincerli a riaprirsi.
Che vuol dire che sono cocciuti anche loro.
Ma che facciano pure, se questo serve a portarmi via da seggioline inopportune.

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