La stagione volge al termine e mi pare giusto tirare le somme. Ma si fa prestissimo perché gli addendi non sono molti, anzi a guardare bene si tratta di una parità, un più e un meno, una somma algebrica diciamo.
Perché nei miei sforzi di raggiungere una certa stabilità sulla tavola dettata, pare, da una giusta posizione, temo di aver perso il lavoro di un anno volto a portare il peso tra il primo e il secondo dito.
Quindi a ben vedere più che di una somma algebrica si tratta di una disfatta, perché ora non so fare né quello né quell'altro. Quindi è meglio se smetto di fare questo punto.
Ho scoperto che il discretone con gli occhiali vuole che la gamba davanti, mentre sono sulla tavola, mi diventi di legno e lui ha scoperto che la mia testa è vuota. Le due cose non hanno portato a un rapporto tranquillo.
Le conseguenze sono state svariati urli cavalcanti le onde nella mia direzione, durante i quali ogni volta tentennavo tra il desiderio di prendere albero e tavola e fracassarglieli sulla testa e riderci sopra. Ha vinto il secondo per due motivi: primo perché quando voglio imparare qualcosa sono cocciuta e la cocciutaggine, questa è una nuova scoperta, può mangiarsi anche la bizza e il secondo è che sto coltivando l'arte della pazienza e non c'è niente di meglio che un'estate sulla tavola per esercitarsi. Anzi, vorrei scrivere una letterina al Dalai Lama per consigliarglielo come metodo d'eccezione.
Cadi cento volte e cento volte ti rialzi.
Hai preso il vento, lo senti per la prima volta nella vita, ti senti felice e il vento se ne va.
Lo riprendi, stai andando alla grande, ma lui decide di giocarti un brutto scherzo e tu voli via dalla tavola.
Cerchi di risalire ma non ci riesci a devi nuotare fino al corridoio spendendo le energie della giornata e della settimana a seguire. (A fine stagione sono in debito di un anno di energie e non ho idea di come farò a recuperarle. Conto su un aiuto divino, perché fra i mortali non è cosa che possa essere risolta)
Ti stai sforzando di mettere in atto gli insegnamenti e ti sembra di fare tutto giusto e il discretone urla che stai sbagliando tutto.
Stai cercando di tendere gambe e braccia, ma non ci riesci, perché a tirarti dall'altra parte c'è il vento e il mare con le sue onde, le forze della natura non un bambino di tre anni e ti viene chiesto cosa stai facendo e perché non fai le cose a modino.
Ti viene detto che ora basta, devi pensare con la tua testa e capire cosa fai, e quando stai facendo bene e quando male e tu ti accorgi che nella testa non c'è niente, niente di niente.
Ma peggio ancora sono le domande.
Talpa, da dove viene il vento?
(frugo nella testa e alzo una zampina)
Da lì
No, da lì (La parte opposta)
Ah.
Cosa devi fare in questa condizione, quando sei là fuori per risalire il vento?
Uhm
La fai lì una virata di poppa?
(la talpa pensa: cosa diavolo è una virata di poppa? E risponde)
Non so, non credo di averla mai fatta.
Il discretone prende a urlare come un ossesso che ne ho fatte decine e forse centinaia.
Quando orzi che succede?
E quando poggi?
Cosa devi fare quando il vento viene da lì per non farti portare dove vuole lui e pagare cento ore di noleggio perché sei finita in Sardegna?
Come fai la virata?
Come si porta la prua al vento e come si allontana?
Inutile che continui per far capire che l'estate della talpa non è stata una passeggiata. Del resto ricordo ancora che in Lituania, durante una innocua gitella in barca a vela su un lago, il nostromo, che era un vecchio lupo di mare, decise di mettermi al timone e poi, sconvolto dalla mia inettitudine, di darmi una lezione di direzioni da tenere rispetto al vento per voler andare dove vogliamo noi e non dove vuole portarci lui. A tal punto se la prese a cuore, che a un certo punto sparì sottocoperta lasciandomi in balia di un timone, di una barca e del mio terrore. Tornò poi con dei fogli su cui cominciò a tracciare linee e frecce perché io capissi come si doveva fare.
Il tema era sempre lo stesso, se vuoi andare lì devi trovare il modo di andarci, non ti arrendi al vento, ma muovi vela e barca per risalirlo il vento.
Perché il vento si risale, non si subisce.
Quindi sono anni che cerco di venire a capo di questa questione sulla quale sono di una durezza inaudita.
Riuscirò mai a rispondere a tutte le domande e a risalire il vento anziché subirlo?
E perché non cammino sui marciapiedi dove è più facile tenerla la direzione?
Perché mi complico la vita?
Domande, domande, domande.
Qualcuno dice che le domande siano molto più importanti delle risposte, ma credo che stiano diventando troppe.
Intanto continuo, perché non si può fare altro che andare avanti, cercando di risalirlo, prima o poi, quel vento, anziché subirlo.
Perché nei miei sforzi di raggiungere una certa stabilità sulla tavola dettata, pare, da una giusta posizione, temo di aver perso il lavoro di un anno volto a portare il peso tra il primo e il secondo dito.
Quindi a ben vedere più che di una somma algebrica si tratta di una disfatta, perché ora non so fare né quello né quell'altro. Quindi è meglio se smetto di fare questo punto.
Ho scoperto che il discretone con gli occhiali vuole che la gamba davanti, mentre sono sulla tavola, mi diventi di legno e lui ha scoperto che la mia testa è vuota. Le due cose non hanno portato a un rapporto tranquillo.
Le conseguenze sono state svariati urli cavalcanti le onde nella mia direzione, durante i quali ogni volta tentennavo tra il desiderio di prendere albero e tavola e fracassarglieli sulla testa e riderci sopra. Ha vinto il secondo per due motivi: primo perché quando voglio imparare qualcosa sono cocciuta e la cocciutaggine, questa è una nuova scoperta, può mangiarsi anche la bizza e il secondo è che sto coltivando l'arte della pazienza e non c'è niente di meglio che un'estate sulla tavola per esercitarsi. Anzi, vorrei scrivere una letterina al Dalai Lama per consigliarglielo come metodo d'eccezione.
Cadi cento volte e cento volte ti rialzi.
Hai preso il vento, lo senti per la prima volta nella vita, ti senti felice e il vento se ne va.
Lo riprendi, stai andando alla grande, ma lui decide di giocarti un brutto scherzo e tu voli via dalla tavola.
Cerchi di risalire ma non ci riesci a devi nuotare fino al corridoio spendendo le energie della giornata e della settimana a seguire. (A fine stagione sono in debito di un anno di energie e non ho idea di come farò a recuperarle. Conto su un aiuto divino, perché fra i mortali non è cosa che possa essere risolta)
Ti stai sforzando di mettere in atto gli insegnamenti e ti sembra di fare tutto giusto e il discretone urla che stai sbagliando tutto.
Stai cercando di tendere gambe e braccia, ma non ci riesci, perché a tirarti dall'altra parte c'è il vento e il mare con le sue onde, le forze della natura non un bambino di tre anni e ti viene chiesto cosa stai facendo e perché non fai le cose a modino.
Ti viene detto che ora basta, devi pensare con la tua testa e capire cosa fai, e quando stai facendo bene e quando male e tu ti accorgi che nella testa non c'è niente, niente di niente.
Ma peggio ancora sono le domande.
Talpa, da dove viene il vento?
(frugo nella testa e alzo una zampina)
Da lì
No, da lì (La parte opposta)
Ah.
Cosa devi fare in questa condizione, quando sei là fuori per risalire il vento?
Uhm
La fai lì una virata di poppa?
(la talpa pensa: cosa diavolo è una virata di poppa? E risponde)
Non so, non credo di averla mai fatta.
Il discretone prende a urlare come un ossesso che ne ho fatte decine e forse centinaia.
Quando orzi che succede?
E quando poggi?
Cosa devi fare quando il vento viene da lì per non farti portare dove vuole lui e pagare cento ore di noleggio perché sei finita in Sardegna?
Come fai la virata?
Come si porta la prua al vento e come si allontana?
Inutile che continui per far capire che l'estate della talpa non è stata una passeggiata. Del resto ricordo ancora che in Lituania, durante una innocua gitella in barca a vela su un lago, il nostromo, che era un vecchio lupo di mare, decise di mettermi al timone e poi, sconvolto dalla mia inettitudine, di darmi una lezione di direzioni da tenere rispetto al vento per voler andare dove vogliamo noi e non dove vuole portarci lui. A tal punto se la prese a cuore, che a un certo punto sparì sottocoperta lasciandomi in balia di un timone, di una barca e del mio terrore. Tornò poi con dei fogli su cui cominciò a tracciare linee e frecce perché io capissi come si doveva fare.
Il tema era sempre lo stesso, se vuoi andare lì devi trovare il modo di andarci, non ti arrendi al vento, ma muovi vela e barca per risalirlo il vento.
Perché il vento si risale, non si subisce.
Quindi sono anni che cerco di venire a capo di questa questione sulla quale sono di una durezza inaudita.
Riuscirò mai a rispondere a tutte le domande e a risalire il vento anziché subirlo?
E perché non cammino sui marciapiedi dove è più facile tenerla la direzione?
Perché mi complico la vita?
Domande, domande, domande.
Qualcuno dice che le domande siano molto più importanti delle risposte, ma credo che stiano diventando troppe.
Intanto continuo, perché non si può fare altro che andare avanti, cercando di risalirlo, prima o poi, quel vento, anziché subirlo.
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