Tuesday, January 27, 2015

Paura di volare.

È noto che la conquista che mi impegna maggiormente a tutti i livelli in questo periodo della mia vita è la verticale.
Andare sotto sopra, guardare il mondo al contrario.
Tempo fa la mia insegnante del mattino, che è attenta, paziente e piuttosto acuta, a fine lezione mi ha detto che su tanti altri punti non avevo problemi, ma su quella roba lì, che è portare il peso oltre il limite, andare oltre il punto di equilibrio, andare oltre la safety zone, si vedeva che mi bloccavo. Il blocco è nella testa, ha detto lei.
Questo io lo sapevo e quando c'è di mezzo la testa non è mai facile. Con un muscolo basta un po' di allenamento, con la testa non sai mai dove andare a parare. È così subdola.
«Questo lo so - ho risposto io - ma come posso lavorarci?»
Lei ha pensato un po' e poi mi ha detto.
«Forse hai paura di perdere il controllo, forse è su quello che devi lavorare. Prova a mollare il controllo, inizia dalle piccole cose».
«Ok». Ho detto io e me ne sono andata.
Che la questione del controllo sia la rovina mia e forse della maggior parte dell'umanità è chiarissimo, ma sentivo che c'era dell'altro. E forse anche questo significa non voler perdere il controllo, voler sapere io di cosa si tratti esattamente.
Ad ogni modo, quando si lascia una domanda a vagare nel corpo accadono cose portentose e così la mattina dopo, mentre facevo tutt'altro ho capito che ero a uno stadio seguente.
Sono andata sul tappeto e ho tirato su le gambe.
Non sapevo quale tipo di blocco avessi aggirato e perché, ma l'avevo fatto.
Ma dalla felicità che ho provato ho capito che oltre alla questione del controllo ce n'era un'altra, ben più profonda.
La paura di volare.
Che non significa paura di perdere un aereo, perché quella non l'ho mai avuta. 
Volare significa andare alto, concedersi l'infinito. Volare significa concedersi la felicità.
Volare significa annullare la gravità.
Ma ci sono ancora molte cose da capire.
Molti blocchi da superare.
Ma se il premio è volare, sono disposta a lavorarci.

I pilastri della terra.

Da un paio di settimane ho deciso di dedicare una maggiore attenzione alle fondamenta.
Nel mio caso si tratta delle gambe.
Perché portare l'attenzione su cento cose contemporaneamente non serve a niente e allora ho capito che loro erano al primo posto.
Loro, che sembrano tese, ma tra sembrare e essere c'è una differenza che ha dello sconvolgente.
I maghi, durante i loro numeri, adottano un metodo. Quando devono preparare il trucco, portano l'attenzione degli spettatori da un'altra parte, li distolgono dal punto in cui lui ha bisogno di agire.
Quando tutto si muove sopra, ogni cosa è così vistosa, assorbe così tanta energia e attenzione, che a loro, lì sotto, non ci pensa più nessuno. L'alto distoglie dal basso. Ma supponiamo che io sia il mago. Se anch'io porto l'attenzione dove c'è il luccichio, mi sto facendo distogliere dal mio stesso trucco.
Non appena ho riportato l'attenzione sulle gambe, ho visto che se la godevano nella più completa rilassatezza. Ma non bisogna essere ingegneri per sapere che senza fondamenta qualunque palazzo crolla.
Senza contrapposizione tra basso e alto non si va da nessuna parte. 
Non è facile riportare l'attenzione su una parte che da anni davo per scontata, ma i miei pilastri mi stavano fregando.
E non si può spiccare il volo se non c'è forza sotto i piedi.
Quindi da un po' di tempo la mia testa è nelle ginocchia e credo che ci resterà per un po'.

La porta-musica.

Nei giorni in cui mi è esplosa quella gran voglia di musica, pur assecondandola, pensavo fosse una di quelle esigenze che nascono dal nulla e nel nulla tornano e che hanno un'importanza relativa, come tutte le cose esteriori.
Ma invece no, non era così.
Perché a questo punto dovrei avere imparato che quando il corpo esprime un'esigenza così forte mi sta dicendo qualcosa di più forte che 'avanti talpa, mettimi due canzonette nuove che quelle che ascolti sempre mi sono venute a noia'.
A parte il fatto che la musica non è cosa di poca importanza, ma è un'esigenza quanto può esserlo bere e mangiare, quando il corpo urla quel che chiede vuol dire che gli serve. A cosa lo sa solo lui, ma bisogna darglielo.
Perché la sete non solo non si è placata, ma è come se mi avesse aperto orizzonti nuovi, dato nuovi colori, nuovi pensieri, nuove sensazioni, nuove dimensioni dell'anima. È una porta. Allarga gli orizzonti della musica e ne allargherai anche altri. Come dire, dammi musica perché attraverso lei io possa andare oltre, da qualche altra parte che ora non ti so dire, ma tu dammela senza discutere. Questo mi stava dicendo.
Caspita quanto poco lo ascolto e mi ci vuole sempre troppo, troppo tempo.
Le chiavi, il più delle volte, sono cose apparentemente piccole, quasi banali, per questo è facile ignorarle. 
Il mio insegnante dice gold is in the details. 
È notarli quei dettagli che è difficile e così tutto l'oro va perduto in fiumi di cose apparentemente più grandiose.
Tempo fa un oroscopo parlava di un tipo che era convinto che la sua auto con una certa quantità di benzina, con la musica giusta potesse fare molti più chilometri.
Non credo abbia torto, perché la musica giusta oltre a nutrire l'anima fa anche calore. La sera, con le luci giuste, un paio di candele accese e lei, potresti essere sotto zero e sudare. Certo, la mia casa non si può definire calda, ma la musica alza la temperatura di una decina di gradi, non c'è dubbio. È un altro tipo di calore, è quello giusto.
Dopo tutto questo, la prossima volta che il mio corpo urlerà qualcosa sarò in grado di ascoltarlo? Perché non sono sussurri, sono urli, eppure sono troppo distratta per starlo a sentire.
Ma se non ascolto lui, chi altro posso ascoltare?
Non parte forse tutto da qui?
E perché mai le cose più semplici sono le più difficili?

Non è disciplina.

'Come sei disciplinata'.
'Non sei pigra, fai un sacco di cose'.
Etc.
Sentirsi dire queste cose mentre spesso nel cervello ci si dice esattamente il contrario, e non senza rimprovero, è interessante.
Non dico meraviglioso, perché il cervello non lascia neanche che la persona di fronte finisca la frase per mettersi a dire 'non è vero, non sei né l'uno né l'altro, non ci provare neanche a montarti la testa'.
Ma nonostante lui, poi rifletti, in un momento in cui magari è distratto in altre cose.
Beh, sì, talvolta mi dicono cose del genere, perfino a me.
Forse non posso definirmi pigra, ma non credo di essere disciplinata. C'è stato forse un tempo in cui lo sono stata, ma non è più. Se non mettere tempo in mezzo fra pensiero e azione significa essere disciplinati, questo è quel che sono stata. Non pensavo, facevo.
Ora non lo sono, eppure le cose le faccio. A volte arrivo alla fine di una giornata in cui mi sembra di non aver fatto niente e invece ne ho fatte tante, ma ci devo riflettere prima di rendermene conto.
Allora ho cercato di capire e la scoperta che ho fatto è stata bella. 
Essere disciplinati, nel senso in cui in genere mi viene detto significa costringersi a fare qualcosa, darsi delle regole. Almeno credo.
Io non ne ho bisogno, perché mi piace fare quel che faccio. Nessuno deve costringermi ad andare a una lezione di danza, di yoga, a scrivere, a disegnare, e tutte le altre attività collaterali che accompagnano la mia giornata. 
Mi alzo e danzo.
Mi siedo e scrivo.
Mi siedo e disegno.
Prendo il cavalletto e dipingo.
E allora penso che non essere costretti ad essere disciplinati sia una gran fortuna.
E che se per me non fosse così, sarebbe un gran casino, perché no, non sono disciplinata.
E forse non sono più nemmeno lontana dal tempo in cui non c'era spazio tra pensare e fare perché forse è proprio lì che sto tornando.
Che vuol dire in un certo senso diventare amica col mio cervello.
Che non è uno scherzo.

Monday, January 19, 2015

Il bio mondo.

In genere si dice.
Un brutto raffreddore mi costringe in casa.
Una brutta influenza mi costringe a letto e di uscire non se ne parla neanche.
Accidenti, ho una frattura alla tibia destra, portatemi qualcosa.
E così via.
Io dico.
Spotify mi costringe a casa.
Che certo è meglio di una malattia, ma forse è una specie di malattia anche quella.
Andavo a scrivere a destra e a manca e non riuscivo a stare in casa per più di mezz'ora. Dopo un po' di girelli per le due stanze dovevo mettere il naso fuori.
Ora ogni mia uscita con conseguente switch off del mio produci-musica si accompagna a un moto di sofferenza di intensità tutt'altro che trascurabile. 
Tanto che spesso tento di sabotare lezioni di danza o yoga o quelle minime uscite necessarie alla sopravvivenza, tipo fare la spesa e solo un residuo di buon senso non mi fa rinunciare a tutto per rinchiudermi e identificarmi fino in fondo con quell'esserino che domina nel titolo del blog. Una talpa.
E quando poi ce la faccio e  mi ritrovo fuori, a volte mi dico che ho fatto bene, altre invece trovo ogni scusa possibile per dirmi che avrei fatto meglio a stare a casa.
Perché c'è dell'altro.
L'altro giorno ero a lezione di yoga, dove arrivo sempre con un certo anticipo, perché in ogni genere di lezione arrivo in anticipo. Ho bisogno di un tempo fisiologico per prepararmi agli eventi.
Inoltre generalmente taccio distesa sul tappetino, sia prima che dopo. Per un tempo di introduzione, prima e di ripristino lento, dopo.
In questi spazi silenti talvolta si inseriscono conversazioni vaganti nell'aria, alle quali in genere non presto attenzione.
Quel giorno due tipe parlavano di cibo e ci feci caso perché è un tema che mi tocca, ultimamente. Non perché ne sia personalmente interessata, ma per l'esatto opposto. Trovo che il cibo sia diventato l'argomento più ricorrente in tutti gli ambienti, a tutti i tavoli, tra tutti i generi, in tutte le situazioni non si fa altro che parlare di cibo. Il perché di questo incremento non lo capisco. A meno che non sia sempre stato così e io non me ne sia accorta.
Come se non bastasse, i cibi di cui spesso si parla sono antitalpa.
Le due tipe ad esempio si passavano una ricetta. Eccola.
Tu prendi del tofu, con un battutino d'aglio, ci metti del ginger, che è miracoloso per qualunque cosa, pare ripari anche i computer, e aggiungi della salsa... ecco il nome della salsa non l'ho capito, iniziava con la sc di scivolo ma il resto mi è sfuggito perché era troppo difficile. Delizioso, concludevano.
Uno può dire, ma cosa te ne importa se gli altri parlano di cibo e se le ricette per te sono strambe, mica le devi cucinare tu.
No davvero, non ci penso neanche. Ma questo non è uno scherzo, questa è un'epidemia. Del cibo in generale e del cibo strano in particolare. Nella talpa city fioriscono posti vegani e vegetariani e bio. Tutto è bio.
Argomenti, oggetti, ambienti, persone, mestieri, viaggi, hobby, giocattoli, strumenti, musicali e non, automobili, abiti, e tutto quel che esiste se non avrà il prefisso bio fra un po' sarà fuori uso.
Le conseguenze per me sono drammatiche e non perché più si va avanti più trovare un panino al salame e un cappuccino sarà difficile, cosa già drammatica, ma perché sarò io stessa una specie in via di estinzione.
Si sa che per l'evoluzione della specie il requisito più importante è la capacità di adattamento. Se ti adatti al cambiamento, sopravvivi, se no sei spacciato.
Io non ce la posso fare, io sono già spacciata.
Io non sono bio.
Quindi se quando riesco a distaccarmi dalla mia ormai adorata connessione e il mio spotify e il mio mondo musicale che crea una dipendenza pazzesca ma chi se ne importa, esco e mi scontro con un tipo di evoluzione che mi ha già tagliato fuori, chi me lo fa fare di uscire?
Questa potrebbe essere la fine della talpa, ma l'unico grande pericolo che sento veramente è che il bio si insinui nel mio computer, nella mia connessione e nel mio spotify.
Un mondo bioteconologico e un biospotify non potrei sopportarli.
Ma le epidemie non sono fatte forse per invadere qualunque cosa?
Temo sia solo questione di tempo.
Altro motivo per perdere meno note possibile in un mondo non ancora contaminato.

Sunday, January 4, 2015

Salti quantici.

Che l'evoluzione non fosse cosa lineare l'avevo già capito. E per evoluzione intendo qualunque tipo di progresso, anche imparare a fare la spesa ad esempio.
Nello specifico parlo di evoluzione musicale.
Un bel giorno mi sono svegliata e ho pensato che mi ci voleva musica nuova, così di punto in bianco. 
Fin qui nulla di strano. 
La stranezza sta nell'urgenza con cui si è presentata un'esigenza che fino al giorno prima neanche mi aveva sfiorato. Mi andava bene la mia musica e anche il mio ipod classico, che avevo difeso di fronte a tutti e soprattutto di fronte a me stessa.
Da ieri nella mia testa non esiste che la versione touch e non capisco come abbia fatto a vivere senza finora.
Va da sé che questo nuovo aggeggio mi pare l'unico in grado di supportare un nuovo mondo musicale fatto di connessioni wifi che possano spingermi oltre i miei confini musicali. È ovvio che si tratta di salti quantici, e non di graduali e dolci progressi. La vita è fatta di salti che da un momento all'altro ti catapultano da un'altra parte. E nei mesi precedenti, quando credevo di sonnecchiare, il vulcano si preparava ad esplodere.
Non so se questo sia rassicurante o terrificante.
Che non ci sia nulla di tranquillo in me e che mentre penso che non accade nulla e che tutto sia sempre uguale, in realtà una lava incandescente se ne va in giro indisturbata cercando uscite a sorpresa da cui lanciare lapilli tutt'a un tratto.
Ma pare che non esista mai un solo rovescio della medaglia, quindi un'evoluzione è probabile che venga compensata da una sorta di involuzione. Nel mio caso non si tratta proprio di questo, quanto di una constatazione di assenza di progresso. Parlo della mia cultura musicale, quella che va al di là dei supporti elettronici e dei limiti che voglio superare, insomma, della parte più importante, quella che sta sotto a tutto.
Da ieri non faccio che ascoltare e esaltarmi ai suoni di musiche adolescenziali. Intendo più o meno le stesse cose che ascoltavo dai dieci anni in su.
Questo, pur non essendo rassicurante, è un fatto.
A quella musica ballo e mi entusiasmo.
Le copertine contengono spesso visi di ragazzi per cui le ragazzine si strappano i capelli (ecco, questo magari non lo faccio), capelli impomatati e sguardo profondo e accattivante, visi dall'incarnato particolarmente bianco, perché il mito del vampiro acchiappa sempre. Quelle copertine che le guardi e capisci che dureranno lo spazio di un disco e poi nessuno si ricorderà di loro, perché l'adolescenza è anche l'età in cui si cambia idea di continuo e quindi un cantante non può durare più di qualche mese.
Quando ero piccola quel che ascoltavo, tipo grease e san remo, era chiamato 'canzoni', quelli di mio fratello 'brani musicali'. Già la terminologia scavava un baratro fra la mia musica e la sua, magari jazz o musicisti conosciuti in tutto il mondo ma solo da chi se ne intende e che devi stare seduto per poter apprezzare veramente, perché se ti alzi quella musica non ti segue.
Io ascoltavo le mie canzonette perché il gioco è la parte predominante in me, anche ora e quella roba mi permetteva di saltellare dappertutto e cantare a squarciagola, magari con un finto microfono in mano. Anche questo ora non lo uso, ma canto e balzello più o meno nello stesso modo.
Non sono scoperte facili da mandare giù, ma bisogna comunque farci i conti.
Quindi il mio lo chiamerei piuttosto un saltino quantico.