Un po' di tempo fa mi ero incasinata la testa su questioni di metodi.
È meglio questo, è meglio quello, sto sbagliando tutto o forse no, questo modo forse non mi porta da nessuna parte, mi sto perdendo o sono già terribilmente persa e non lo so, sto sprecando tempo e danaro (si fa per dire), sto girando sempre in tondo e così via.
Nonostante mi rispondessi che i dubbi non portano da nessuna parte, tranne togliere tempo al fare, e mettermi in uno spazio peggiore di quello di sbagliare metodo, non mi placavo.
Perché essere assillato dai dubbi è come vivere in una gabbia con leoni o tigri o leopardi che ti accerchiano. Forse non provi quel tipo di terrore, il che è anche peggio perché non ti accorgi che sei in una gabbia con delle bestie feroci, ma ti pare perfino di essere libero, creativo e di lavorare con un'intelligenza che prima non avevi.
Sto forse dicendo che dubitare non serve a niente?
Più o meno.
Diciamo che tutto ciò che blocca non serve.
Meglio provare e sbagliare, che stare a pensare a cosa sarebbe meglio fare. Tanto la prova vera è sempre sul campo.
A parte questa introduzione un po' lunghetta, sono arrivata però anche a una certa chiarezza rispetto al metodo e ai dubbi che mi tormentavano.
Non sto dicendo che lo abbia trovato e abbia risolto tutto, se no cosa farei nel resto della mia vita.
E è pure probabile che il mio modo di lavorare sia altamente sbagliato e improduttivo.
Ciò nonostante ho capito che i dubbi che inseguivo non erano miei. Facevo miei i dubbi di altri. O meglio, in base a ciò che altri definivano utile per il loro lavoro, io definivo il mio giusto o sbagliato.
Allora i manuali non servono? E neppure i metodi che in secoli di studio e lavoro sono stati elaborati? E neppure i consigli di chi ne sa più di me?
Sì servono, certo, tutto serve, ma a patto che riusciamo a farli nostri.
Non posso prendere l'esperienza di un altro e applicarla al mio lavoro, se non la sento mia e mi tocca copiare e sforzarmi di fare in un modo che non capisco, perché non mi è entrato dentro.
Non è questione di mio o di tuo, è questione che un metodo va assorbito, va fatto proprio.
In realtà quel che penso è che ci si debba arrivare da soli. Per scoprire magari che il punto di arrivo è uguale identico a quello che tanti prima di me, ben più esperti, avevano detto, ma non importa. Se uno non lo sente, non lo può seguire.
Quindi che fare, in casi come questi?
Un mio insegnante dice che bisogna essere maestri di se stessi, come fece Stani e che l'unico modo per esserlo è lavorare.
Lavorare è la strada per il metodo.
E se non ne troverò mai uno, allora vorrà dire che il mio sarà un non metodo.
Ma almeno sarà il mio.
È meglio questo, è meglio quello, sto sbagliando tutto o forse no, questo modo forse non mi porta da nessuna parte, mi sto perdendo o sono già terribilmente persa e non lo so, sto sprecando tempo e danaro (si fa per dire), sto girando sempre in tondo e così via.
Nonostante mi rispondessi che i dubbi non portano da nessuna parte, tranne togliere tempo al fare, e mettermi in uno spazio peggiore di quello di sbagliare metodo, non mi placavo.
Perché essere assillato dai dubbi è come vivere in una gabbia con leoni o tigri o leopardi che ti accerchiano. Forse non provi quel tipo di terrore, il che è anche peggio perché non ti accorgi che sei in una gabbia con delle bestie feroci, ma ti pare perfino di essere libero, creativo e di lavorare con un'intelligenza che prima non avevi.
Sto forse dicendo che dubitare non serve a niente?
Più o meno.
Diciamo che tutto ciò che blocca non serve.
Meglio provare e sbagliare, che stare a pensare a cosa sarebbe meglio fare. Tanto la prova vera è sempre sul campo.
A parte questa introduzione un po' lunghetta, sono arrivata però anche a una certa chiarezza rispetto al metodo e ai dubbi che mi tormentavano.
Non sto dicendo che lo abbia trovato e abbia risolto tutto, se no cosa farei nel resto della mia vita.
E è pure probabile che il mio modo di lavorare sia altamente sbagliato e improduttivo.
Ciò nonostante ho capito che i dubbi che inseguivo non erano miei. Facevo miei i dubbi di altri. O meglio, in base a ciò che altri definivano utile per il loro lavoro, io definivo il mio giusto o sbagliato.
Allora i manuali non servono? E neppure i metodi che in secoli di studio e lavoro sono stati elaborati? E neppure i consigli di chi ne sa più di me?
Sì servono, certo, tutto serve, ma a patto che riusciamo a farli nostri.
Non posso prendere l'esperienza di un altro e applicarla al mio lavoro, se non la sento mia e mi tocca copiare e sforzarmi di fare in un modo che non capisco, perché non mi è entrato dentro.
Non è questione di mio o di tuo, è questione che un metodo va assorbito, va fatto proprio.
In realtà quel che penso è che ci si debba arrivare da soli. Per scoprire magari che il punto di arrivo è uguale identico a quello che tanti prima di me, ben più esperti, avevano detto, ma non importa. Se uno non lo sente, non lo può seguire.
Quindi che fare, in casi come questi?
Un mio insegnante dice che bisogna essere maestri di se stessi, come fece Stani e che l'unico modo per esserlo è lavorare.
Lavorare è la strada per il metodo.
E se non ne troverò mai uno, allora vorrà dire che il mio sarà un non metodo.
Ma almeno sarà il mio.
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