Sunday, November 30, 2014

Mattine.

Ci sono mattine in cui ti alzi con un pennello già in mano e andresti direttamente davanti a una tela, non prima di aver trangugiato una bella tazza di caffellatte, naturalmente.
Ci sono mattine in cui vorresti solo poltrire nel letto.
Ci sono mattine in cui sei sveglio ancora prima di aprire gli occhi.
Ci sono mattine in cui gira bene e tu lo capisci subito.
Ci sono mattine in cui il percorso dalla camera alla colazione lo puoi fare a passi di danza perché è così che ti va.
Ci sono mattine in cui vorresti fare tutto, ma proprio tutto quello che ti eri ripromesso.
Ci sono mattine in cui non vorresti fare nulla di quello che avevi deciso e ti innervosisci anche per aver provato a programmare, perché il tutto aperto è troppo più bello.
Ci sono mattine però in cui un piano ti manca e lo vorresti.
Ci sono mattine in cui il passato è come un macigno e il futuro, dov'è? E cosa e perché?
Ci sono mattine in cui nulla è mai esistito prima e nulla esisterà domani perché esiste solo l'ora.
Ci sono mattine in cui potresti essere appena nata e tutto è da scoprire.
Ci sono mattine in cui, se ci fosse una pista ciclabile che parte accanto al portone e fa il giro del mondo, la prenderesti subito.
Ci sono mattine in cui invece, vorresti stare, perché è già tutto qui.
Ci sono mattine in cui vorresti scrivere talmente tanto che ti spaventi e allora non lo fai.
Ci sono mattine in cui lo fai e ne sei felice.
Ci sono mattine in cui fai talmente tanti progetti che non ti basterebbero tre vite per realizzarli, ma ti sembrano tutti molto attuabili e anche in breve tempo.
Ci sono mattine in cui senti il mondo che ti gira sotto i piedi e tu con lui.
Ci sono mattine in cui i tuoi piedi sono sospesi, tu lo vedi, ma non puoi farne parte.
Ci sono mattine in cui vuoi il sole.
Ci sono mattine in cui vuoi le nubi.
Ci sono mattine in cui non ti importa, va bene tutto e neppure ci fai caso.
Ci sono mattine in cui potresti regalare energia al resto del mondo.
Ci sono mattine, tutte per fortuna, in cui il caffellatte è delizioso.
Ci sono mattine in cui ami.
Ci sono mattine in cui non sopporti.
Ci sono mattine in cui la musica è necessaria come l'aria.
Ci sono mattine in cui fa caldo anche se è inverno perché il freddo non è cosa che ti riguardi.
Ci sono mattine in cui pensi di poter fare tutto.
Ci sono mattine in cui il tuo passo è pesante.
Ci sono mattine in cui non riesci a beccare la porta per entrare.
Ci sono mattine in cui puoi volare.
Ci sono mattine in cui la luce è sia fuori che dentro.
Ci sono mattine in cui vorresti leggere tutti i libri che non hai ancora letto, tutti e subito.
Ci sono mattine in cui vorresti uscire e camminare, senza meta.
Ci sono mattine in cui non pensi a niente.
Ci sono mattine in cui hai fiducia e capisci che non c'è bisogno d'altro.
Ci sono mattine in cui accarezzi tutto con gli occhi miopi.
Ci sono mattine in cui cerchi disegni da fare.
Ci sono mattine...in cui tu...
Perché in tutti i casi due sono le costanti. 
Le mattine e almeno una parte di te.
Questi sono gli ingredienti minimi e necessari perché una giornata inizi. E questi due in effetti, che ci piaccia oppure no, ci sono sempre.
E insieme costruiscono una giornata.

Saturday, November 29, 2014

Tra realtà e immaginazione.

E finalmente sto scrivendo un post da dentro, la mia casa e la sua casa, quella del blog e è proprio tutta un'altra cosa.
Ieri sera ho visto un film documentario, che a parte il fatto bello o brutto e se l'abbia capito o no, e la risposta è mica tanto, mi ha raccontato un mucchio di cose.
Parlava di una zona, il corno d'Africa in cui in qualche modo sono stata. Con l'immaginazione.
Ecco, le scene che ho visto erano le stesse che avevo creato nella mia testa, o comunque molto simili. Io, in qualche modo, ero stata proprio lì.
C'era perfino una montagna, all'inizio, in cui nascondevano delle cose e anche lei pareva come l'avevo creata.
Sono rimasta col fiato sospeso, in quel cinema in cui spesso mi ripropongono sullo schermo scene create dalla mia fantasia.
È una sensazione strabiliante.
Però.
Forse non è vero che per conoscere qualcosa devi andarci. E ancora. E forse anche questa è una domanda ricorrente. È la realtà che guida la fantasia, o il contrario?
Perché io non credo che avrei saputo descrivere meglio quei luoghi se ci fossi stata, per il semplice fatto che spesso non sono affatto in grado di descrivere ciò che vedo. Certo, poi la differenza, sia in un caso che nell'altro, sta nella capacità di raccontare, di descrivere e di far vivere anche agli altri quel che vedi tu, ma questa è un'altra cosa.
Quel che avevo immaginato era vivo quanto le scene sullo schermo. Era tutto lì. E mi ha riportato in modo vivido in tutto quel che avevo scritto perché, a modo mio, c'ero già stata. E se così non fosse stato, quelle immagini non le avrei vissute così. Era nato tutto prima.
Dice che si dovrebbe parlare di quel che si è vissuto e che si conosce. È davvero così? Perché la conoscenza invece potrebbe anche venire dopo averne parlato, dopo averci un po' giocato, dopo averla incontrata in modi che sono nostri, dentro e non fuori.
Insomma la questione dei prima e dei dopo e di chi guida che cosa non è così facile da decifrare, né tantomeno così netta. Può darsi che si confondano l'una nell'altra.
Inoltre il documentario usava uno stratagemma formidabile. Alternava scene vere a scene d'animazione. D'improvviso persone, paesaggi e mari diventavano disegni. E sarà che i disegni erano veramente belli, ma io li trovavo molto più veri e convincenti della cosiddetta realtà. Il disegno, quello sì che era reale e vibrante e mi faceva saltare dentro. Il resto era riproduzione.
Questo vuol dire che i cartoni parlano a una parte di me decisamente più recettiva e arrivano dove il vero non arriva.
E quindi, ancora, cosa è più vero fra i due?
Per quanto mi riguarda, credo di aver già dato la risposta.

Le transizioni.

Non so dire se le domande che mi faccio siano troppe o poche, ma so che me ne faccio alcune.
Una di queste ricorre spesso in questo ultimo periodo e non è neutra, ma porta con sé una qualità, come direbbe il mio insegnante Michael. Lo stupore.
Accade durante le lezioni di danza, dove è naturale che mentre lavoro mi domandi cosa stia comportando la pratica dello yoga.
È ovvio che me lo chieda. Da sempre, per imparare la danza non ho usato altro che lei stessa, la danza. Cosa succede a un corpo se di punto in bianco inizia una nuova disciplina che è diversa, ma va a lavorare in un modo che presenta delle affinità e con lo stesso strumento, che è sempre il corpo, e non quello di qualcun altro, ma il mio.
La domanda che mi faccio in ogni esercizio è: mi toglie o mi aggiunge? E cosa?
E siccome la risposta finora è che mi aggiunge e basta, questo mi turba. Primo perché è vero che non siamo mai contenti e secondo perché non esiste nulla che aggiunga e basta, è necessario che tolga anche, è necessaria la sua parte oscura, negativa, perché esista. Ma io non la trovo.
Sono sfumature, sensazioni di frazioni di secondo che non saprei neppure descrivere, percezioni diverse, attimi minuscoli che mi parlano di mondi nuovi all'interno del mio corpo che vengono da lì, da quell'altra parte.
Due su tutte spiccano però in maniera più consistente.
La forza del centro, che credevo di avere, ma non è la stessa. Perché c'è centro e centro. C'è quello a cui devi pensare e che è attaccato a tutto il resto e c'è quello che è slegato da tutto, o meglio per mezzo del quale puoi slegare tutto. E grazie a quell'unico puntino, ti senti libera, diversa. Puoi anche andare fuori asse, perché lui sa dove riportarti. È più che un centro, è un punto di fiducia attorno al quale puoi far ruotare tutto il resto come più ti aggrada. È una cosa inesistente, non puoi vederla, ma c'è e è come un fuoco che ti fa sentire presente e consapevole negli esercizi. È un punto a cui puoi attaccarti e che ti tiene come una mano che non ti molla mai, ma non ti trattiene e non ti limita.
E poi ce n'è un'altra forse ancora più considerevole.
Tendevo a porre la mia attenzione sull'inizio e la fine di un esercizio. O meglio, in ogni esercizio ci sono dei punti chiave, delle tappe, che sono quelle più importanti, o almeno così pensavo, che vuol dire badare poco al passaggio fra l'una e l'altra. Invece lì in mezzo c'è un mondo. Significa non mollare mai, significa curare il percorso, significa guidare l'energia.
Credo di aver scoperto che sono le fasi di transizione a dare senso al punto di arrivo, anche al più minuscolo e quel mondo lì, finché non lo scopri, è sconosciuto, ma quando inizi a vederlo capisci che ti stai perdendo il meglio, che c'è un sacco di roba a cui non facevi caso e che valeva la pena scoprire. È come quando inizi a leggere i fumetti che fino al giorno prima avevi ignorato perché non ti interessavano e scopri che è la cosa più bella del mondo e ce ne sono scatole piene tutte per te da leggere. E allora la vita diventa bellissima.
Questo sono le transizioni. Tra un passé e una quinta, c'è un piede che torna giù e che ha un sacco di roba da raccontare.
Naturalmente, la domanda che segue è: cosa è più importante, i punti di arrivo o le transizioni, appunto, il modo in cui ci arrivi?
Perché il modo in cui ci arrivi fa una grandissima differenza.
Curare quei millimetri può cambiare la vita.
Perché può cambiare un passé.
E i mondi sono intercambiabili.
Perché forse non c'è confine tra l'uno e l'altro.

Creatività.

Ci sono periodi in cui vivo molto fuori, praticamente per strada. Mi piace e forse avrei dovuto fare teatro di strada e girarci il mondo, però in realtà non mi sento fatta neppure di quella pasta lì, perché sto di molto nei bar al caldo a bere cappuccini.
Fatto sta che trascorrere le giornate fuori dalla mia dimora, almeno nella talpa city e in questo paese, ha un incredibile svantaggio. Sono sempre offline. Non trovo connessioni da nessuna parte.
Quindi, non solo mi sento tagliata fuori da un mucchio di cose, ma mi tocca scrivere i miei post e poi pubblicarli se per caso riesco a ritrovarmi dentro al web mondo. Ma devo dirlo, scriverli in una casa diversa dal blog non è lo stesso, ma credo sia meglio che non scriverli affatto.
È un periodo creativo e anche se spesso non so dove stia andando, lo è ugualmente. Ma forse definirlo periodo non è esatto, perché in tal caso avrebbe un inizio e una fine. Credo sia così e basta. Perché credo che togliere quello che limita la creatività sia come togliere un tappo e tutto inizia a scorrere in un altro modo.
C'erano mondi che avevo creato e che non mi appartenevano e anche se nella giornata ti prendono poco tempo, anche se ce l'avresti il tempo e il modo di fare altro, ti rubano l'energia e ti spengono. Io sono stata fortunata, perché poter tagliare fuori quello che non ti piace è un grande privilegio. È una rinascita, è una roba che ti fa capire meglio chi sei e dove stai andando.
Anche se io non l'ho mica capito, ma non importa. Quel che importa è lavorarci.
Non so bene cosa voglia dire con questo post, forse solo godermi il piacere di parlare. Perché parlare in un blog è bello, è un piacere diverso da tutti gli altri e credo sia perché nessuno ti risponde e puoi dire quello che ti pare. È come scrivere un diario stando affacciata a una finestra, dove senti la vita che passa anche se tu sei lassù, dietro la finestra. Senti il vento che ti passa intorno, senti le voci, senti il rumore della vita, ma tu puoi continuare a scrivere nella tua specie di silenzio.
È un momento che ti prendi per te, in cui puoi parlare, non devi ascoltare e nessuno è costretto ad ascoltarti. È un momento di libertà.
Scrivere in un blog è una gran cosa.

L'onda.

Mica che non sono contenta, lo sono eccome, però non sono avvezza a quella roba lì. Io non sono una talpa spericolata e neppure granché coraggiosa.
E quel che mi piace è quel mare calmo e pacifico che ti accarezza lento e amichevole. Quel mare che me lo immagino come una distesa blu senza increspature, che mostra il suo lato migliore e mi dice 'talpa, siedi qui davanti e non avere paura. Posso essere tremendo ma per te sarò sempre molto placato'. E così mi ero pensata, seduta con la schiena dritta davanti a questa pacifica distesa. Anche se lo so che lui è anche parecchio bizzoso e nasconde un lato oscuro che non è da sottovalutare per niente.
Ecco, per tutti questi motivi è probabile che lì, in quel luogo che avevo pensato come un paradiso, perirò annaspando in un'onda. 
Intanto perché si chiama oceano e non mare e non è per niente la stessa cosa. E perché le onde mi mettono in difficoltà.
Perché alla fine ci vado a Fuerte Ventura. A provare questa associazione di yoga più surf.
Ma il surf è quello da onda, e ammesso che esistano delle vele lì, è probabile che le onde siano talmente alte da scarventarmi in mare senza tante cerimonie e strapparmi la vela di mano portandosi via anche le mie zampine.
Al momento della sospensione del mio allenamento da wind surfista, non me lo dimentico mica, le condizioni perfette per me per uscire erano: 1,2 nodi, vento di scirocco e mare piatto. Il livello due che mi azzardavo ad affrontare prevedeva qualche onduccia in più e forse i due nodi. Nulla a che vedere con onde oceaniche e venti impetuosi e cattivi.
Certo, a quei tempi, in cui uscivo con quelle condizioni così lievi, non praticavo ancora lo yoga, ma non credo che questo cambi granché, perché sulla tavola mica si va a testa in giù e questo è quello che sto cercando di imparare dallo yoga, vedere il mondo al contrario.
Quando accadrà sarà fenomenale, perché da troppo tempo ho questo desiderio, nonostante molti mi abbiano detto che si vive bene anche senza. Vero. Ma io so che il giorno in cui vedrò il mondo al contrario senza paura e senza nessuno a sostenermi, per me tutto cambierà.
Ma che c'entra questo con quelle onde e quell'oceano che mi terrorizza?Niente, a parte il fatto che forse non mi farà arrivare a vedere il mondo al contrario.
Però vado, perché ormai è fatta, ho il biglietto e sono in ballo.

Tuesday, November 25, 2014

La gravità.

Ci sono forze a cui non si fa caso, finché non ci si confronta direttamente con esse. Quando accade, può trattarsi di incontri positivi, negativi o misti.
Sebbene io sappia che la forza di gravità è cosa utile perfino nella mia vita e per la mia persona talposa, il mio incontro con lei lo definirei del tutto negativo.
Perché ho il bacino pesante e lei, la suddetta, me lo riporta giù sempre di prepotenza.
Pare che si sia aggrappata con le mani ai miei fianchi e non mi lasci salire. O che ci siano pesi lì dentro, come quelli che si usano per sprofondare sul fondo degli oceani.
Ma io non devo sprofondare da nessuna parte e semmai dovessi averne bisogno li attaccherò lì per lì, nel frattempo vorrei essere lasciata libera di volare come un palloncino, grazie.
E forse questa potrebbe essere una soluzione, legarmi alla vita moltissimi palloncini, ma certo non è pratico gonfiarne un centinaio tutte le volte che devo andare a testa in giù.
Fatto sta che tutte le volte che provo a sollevarmi la forza mi trattiene in un modo che va perfino oltre la normale legge fisica.
Perché se non sbaglio, la legge gravitazionale dipenderebbe anche dalla massa, quindi secondo il suo comportamento è come se io pesassi trecento chili, forse anche qualcuno in più.
È chiaro che fra me e lei c'è qualcosa che non torna.
Ed è altrettanto chiaro che devo liberarmene.
Voglio eliminare l'attrazione gravitazionale dal mio corpo e andare in direzione opposta.
Come posso fare?
Perché un modo ci deve essere.

È successo di nuovo.

Dunque.
È accaduto di nuovo che un tipo si mettesse a disegnare, sulla sua tovaglietta stavolta, mentre aspettava il pranzo e io mangiavo il mio panino col caffellatte dopo la lezione.
Che tutto il mondo si sia messo in testa di disegnare è cosa ben bizzarra, ma sicuramente affascinante.
E io stavolta sono stata fortunata.
Primo perché ho potuto sbirciare ben benino, secondo perché ero lì per mangiare e non per lavorare e quindi mi potevo distrarre come e quando mi pareva.
Beh, non che faccia molto differenza in realtà, perché se c'è da mollare quel che sto facendo sono sempre pronta. 
Questo qui disegnava pupazzini. Pupazzini che si muovono, che cadono e assumono forme diverse. Troppo bellini.
L'ho guardato spudoratamente mentre tracciava tutti i suoi segni, mancava poco che girassi anche la sedia verso il suo tavolo.
Il risultato di tutto questo è che voglio assolutamente un pupazzino tutto mio. Credo di non poter più vivere senza.
Perché averne uno da far muovere su un foglio credo sia una cosa meravigliosa e fondamentale per la mia vita.
Quindi da oggi inserirò nelle mie giornate lo studio del piccolo personaggio grafico.
Naturalmente non ho certezze sul risultato e neppure sulla durata del mio interesse per tale oggetto, a meno che nel frattempo non riveda qualcuno che ne disegna uno su un foglio, perché in quel caso il mio desiderio di copiare ne verrebbe rinvigorito e mi sentirei di nuovo come oggi, di non poterne fare a meno.

Saturday, November 22, 2014

Comunicazioni importanti.

Ci tengo a comunicare al mondo intero che sto navigando dalla mia dimora.
Ci tengo inoltre a comunicare che per risolvere il problema ho dovuto attivare i miei neuroni, il che apre una consapevolezza sul fatto che a qualcosa servono e che qualcuno ne ho e può funzionare e dare molta soddisfazione e sull'inefficienza dell'assistenza Tiscali, che dopo il laconico messaggio 'verifichiamo' mi ha abbandonato al mio destino.
Durante la mia colazione, momento sacro per me, confermato anche dal fatto che mi accende idee geniali nella testa, mi è tornato in mente un piccolo particolare che una volta aveva stonato davanti ai miei occhi, ma che avevo lasciato correre. Come un buchino nella parete a cui non si dà importanza finché non inizia a fare acqua.
Il nome a cui si connetteva il router non era il mio, ma di una mia precedente coinquilina.
Ma un nome vale l'altro, mi ero detta e tutto funzionava e quando tutto funziona meglio non toccare.
Ma ora quel che vedevo io, loro non riuscivano a vederlo e allora ho pensato che l'inghippo potesse essere proprio in quel particolare apparentemente insignificante. Il nome.
Mi è tornato in mente anche un cavo di colore giallo a cui potevo appendermi e chiedere aiuto, di cui mi ero dimenticata e che ora invece venererò per il resto della mia vita. Del resto forse non è un caso che gli abbiano dato il colore del sole.
Tramite lui e l'apposito cd sono entrata nella grotta dei dati, buia e misteriosa.
Dopo alcuni tentativi in cui è crollato l'intero mondo della mia configurazione e attimi di paura hanno invaso il mio corpo 'ecco, ora ho cancellato tutto, non funziona e non ho neppure idea di come tornare a come ero prima, che era meglio di niente', ho cambiato una finestrella a caso e il mondo, sia quello giallo che wifi si è riacceso, aprendomi le pagine come se nulla fosse mai accaduto e riportandomi sulle onde della navigazione. Col mio nome stavolta. 
A quanto pare la navigazione richiedeva una linearità di cui non mi ero preoccupata.
Tu navighi, aveva detto e tuo deve essere il nome scritto lì.
Non fa una grinza.
Però c'è un altro fatto.
Che loro, gli inefficienti, non vedevano quel che vedevo io.
E va bene che pare che la realtà non sia libera dall'osservatore, ma anzi ne sia fortemente influenzata, ma che succede se ognuno inizia a vedere quel che gli pare?
Io vedevo cose che loro non vedevano e neppure hanno risposto all'invio dello screenshot, imparato lì per lì. Perché forse non vedevano neppure quello.
Era una faccenda tra me e me. Tra me e il mio nome.
Che succede se dove io vedo una sedia un altro vede un tavolino e io mi siedo, convinta di fare qualcosa di naturalissimo e l'altro osservatore mi vede seduta su un tavolino, ad esempio in un bar?
Che succede se entro in un autobus e invece è una carrozza tirata da cavalli o viceversa?
Che succede se ognuno davvero inizia a vedere quel che vuole?
Se una realtà comune non esiste più?
Può la sostituzione di un nome riunire tutto questo?

Friday, November 21, 2014

Poi.

Perché qui ho la connessione e voglio sfruttarla e voglio parlare, parlare e parlare.
Domani devo fare il manichino.
Quindi è tutto il giorno che penso a cosa mettermi.
(Uno accanto a me ride. Beato lui. Di sicuro avrà la connessione anche a casa sua, anche se ha un turbante in testa e sta navigando qui. Non riderebbe così se non ne avesse una tutta sua).
Dicevo. Cosa mettermi?
E la vocina mi risponde.
Cosa importa come sei vestita, talpa.
Certo che importa e anche parecchio.
(Questo qui ora canticchia addirittura. Di connessioni quindi ne avrà più di una. Ce l'avrà nelle cellule e se la porta dietro dovunque vada. Beato lui).
No che non importa, vestiti come ti vesti di solito.
Di solito non faccio il manichino.
Ma che te ne importa? È la stessa cosa.
No che non lo è.
È lei che deve dare l'esame e tu dovrai solo stare lì a contorcerti, soffrire e sudare.
Che schifo. Pensa se si vede il sudore sulla maglietta. Giammai.
Sei proprio superficiale.
Uffa. Il generale compito di un manichino è quello di essere rivestito da abiti e accessori bellissimi, il meglio che c'è a disposizione per stare nelle vetrine a farsi ammirare.
Ma ti sei fissata con questo manichino.
Taci, tanto non capisci niente.
È tutto il giorno che mi dibatto in questa conversazione, cioè mi ci dibattevo prima che la connessione mi abbandonasse.
Poi tutto è stato spazzato via.
Ma dentro di me c'è comunque una finestra vuota e aperta che una targhetta 'cosa indossare domani' da cui entrano molti spifferi.
Difficile ignorarla.
Che vita difficile.

Contrattempi.

Il termine usato per il titolo è fin troppo elegante, considerando il pietoso stato in cui mi trovo. Ma questo è un blog e non posso fargli vedere che sono una talpa che si è appena accasciata su una scrivania, tremante e provata.
Motivo per cui questo post sarà un po' confuso.
Ma credo anche che starò qui fin quando non avrò sfogato tutta la mia astinenza.
Che implica una dipendenza.
Ma andiamo per gradi, perché oggi il mondo sembra volermi mettere alla prova.
E parliamo innanzitutto del gigantesco problema che si è issato dinanzi alle mie zampine.
La connessione.
Quella casalinga.
Non funziona.
Anziché aprire le pagine richieste, si apre una schermata in cui mi dicono 'bella, non hai pagato le fatture e quindi ora stai senza'.
Ma io le ho pagate e per ore non sono riuscita a parlare con nessuno e ho provato a seguire le loro indicazioni, che però sembravano uno scherzo e ho chiamato fastweb per fare fuori tiscali immediatamente ma loro dicono che dovrei aspettare quindici giorni e invece non voglio aspettarne neppure mezzo e ho camminato per la casa come una tigre nello zoo in una gabbia minuscola e mi sono imbizzita anche con il mio telefono e sono come impazzita. 
E alla fine ho ceduto ai metodi che chiedono loro. Interpellarli via twitter, con messaggi minuscoli. Va da sé che in questo momento li odio.
Via twitter hanno risposto. E non gli risulta nulla di tutto ciò che accade a me e allora mi sono sentita ancora più sconnessa e sola e attaccata dal mondo intero. Hanno parlato di virus.
No, il virus non lo accetto, il virus ce l'avrai tu bello e poi mi succede sull'iphone e sul computer, non posso avere due virus uguali in due dispositivi diversi, ma io so bene che i virus sono contagiosi e loro stanno spesso insieme appiccicati sul divano, che forse vuol dire che in seguito dovrò tenerli separati, per evitare che si attacchino qualcosa l'un l'altro. Ma al seguito poi ci si penserà.
Poi questo tipo mi ha detto 'mi mandi uno screenshot di quello che vedi?'
Uh? 
Non ho la minima idea di come si faccia, ho risposto.
E lui cosa ha detto? Verifichiamo. 
Verifichiamo, punto.
Il sottotesto era 'sei una dura, inutile parlare con te, chetati e lasciaci lavorare, che è meglio'.
Ma ci vuole ben altro per chetare una talpa, che ha chiesto a wizard google 'senti, me lo dici come si fa uno screenshot sull'iphone?'
E WG ha detto 'certo che te lo dico talpa, sono a tua disposizione. È facile, perfino tu ce la puoi fare'.
'Ehi, vacci piano, cosa vorresti dire?'
'No, niente, solo rilassati e fai così e cosà'.
E in effetti era facile e l'ho fatto e dopo un paio di minuti ho scritto a questi qui.
'Ho imparato a fare lo screenshot, eccolo'. E gli ho mandato la foto.
Ma non mi hanno più risposto.
Nel frattempo sono uscita perché la gabbia si stava stringendo su di me fino a togliermi il respiro.
E ho capito. 
Non ce la posso fare. Senza connessione internet non posso più vivere.
Tollero a malapena di non averla ovunque, ma se mi sparisce anche in casa la vita diventa intollerabile, tutto si spegne e annaspo nel buio.
È probabile che debba trasferirmi in uno di quei paesi dove è la connessione a seguire te e bussarti nelle spalle e non viceversa. Ma anche a questo penserò più in là.
Intanto... sono qui.
Uscita, preso un cappuccino con un cornetto, perché avevo consumato tutte le mie energia e finita in biblio dove ho trovato un posto in cui prende.
Avrei messo tutto a ferro e fuoco se fosse stato diversamente.
Da notare che hanno eliminato alcuni dei divani. Forse perché il ronfare da orsi si spandeva troppo nell'aria disturbando gli studiosi.
In questo luogo avrei anche da finire un racconto di paperino iniziato e lasciato a metà, a cui non faccio che pensare.
Il punto è che la giornata di oggi mi ha fatto capire che di zen non ho proprio niente, e che il paperino che è in me è vivo e vegeto e pronto a prendere il sopravvento.
Anzi l'ha già preso alla grande.
Non voglio aspettare, voglio solo sbizzellare e non in centoquaranta miseri caratteri, voglio sbattere i piedi e alzare i pugni.
Non mi importa di essere Paperino, rivoglio la mia connessione.
Intanto credo che starò qui finché non mi butteranno fuori, alla chiusura, tanto per stare vicino a una connessione e forse quando chiuderanno mi nasconderò sotto una scrivania a passerò la notte qui.
Non credo che avrò paura.
Forse ne avrei di più nella mia casa sconnessa.
Sì, credo che passare la notte nascosta qui dentro sia il male minore.

Monday, November 17, 2014

Ieri, sedici novembre.

In una giornata piovosa cosa scopro?
Che una persona sconosciuta pare abbia acquistato una copia del mio libro.
Ieri. 
Di domenica.
È una cosa che mi riempie di.
Stupore.
Gioia.
Gratitudine.
Preoccupazione.
Tremore alle zampine.
E anche al cuore.
Senso di frenesia generale, non controllabile.
Ho la sensazione di dover fare qualcosa ma non so cosa. Perché probabilmente non c'è nulla che io debba fare, a parte continuare a fare la mia vita come sempre.
Ma non è mica così semplice.
Perché ieri una persona si è messa in testa di comprare un mio libro, che vuol dire che probabilmente ha acceso il computer, è andato sul sito, non so se ci sia finito per caso o sia andato lì di proposito, ma ha deciso di acquistarlo, pensando di spendere dei soldi per leggerlo, ha probabilmente usato una carta di credito, operazione non proprio immediata e ora aspetta che gli arrivi a casa per posta.
E io non so se sia felice, trepidante per l'attesa, o già pentito, o già dimentico dell'acquisto fatto, ma in ogni caso, lo ha fatto e fra qualche giorno una copia del mio libro entrerà nella sua casa 
Qualunque cosa accadrà, che gli piaccia, che non gli piaccia, che lo metta su una libreria o su un comodino o su un divano, che lo tenga o che lo bruci come fa Pepe Carvalho o che lo scaraventi dalla finestra dopo le prime pagine, lui avrà speso minuti della sua vita e soldi per acquistare una copia del mio libro.
Senza conoscermi.
Tutto questo mi commuove e vorrei anche restituirgli i soldi, solo perché uno che mi dà una gioia così grande non dovrebbe spendere danaro.
E perché è evidente che non sono una commerciante. E non faccio che dirmi che non l'ho riguardato, che il font è piccino, che costa troppo e che non è giusto che qualcuno paghi per comprare un mio libro.
E non so perché pensi così, perché io non faccio che spendere soldi per acquistare libri, quasi tutti i giorni e ne sono anche contenta.
Però ieri una persona ha acquistato il mio di libro, quello che ho scritto io e che ora sarà suo, e questo per me, oltre a essere meraviglioso, credo sia troppo.
Più di quanto riesca a immaginare.
Questo gesto segna una specie di prima e dopo.
In questo gesto c'è un universo intero e pensarlo tutto mi dà le vertigini.

Sunday, November 16, 2014

Curiosità talpose.

Giusto un piccolo appunto, perché sono qui per lavorare, che diamine!
Però, il mondo esterno non mi aiuta, va detto.
In questo luogo, come forse ho già detto altre volte, la connessione non funziona mai. Quindi oggi ho provato solo perché ci provo sempre, anche quando ho i minuti contati e non dovrei neppure pensarci. Anzi, forse in quelle occasioni ci provo anche di più. 
E la prova è perfettamente riuscita. Eccomi qui.
Adoro troppo entrare in questa finestra sul mondo dai posti più disparati. Che ci posso fare se mi piace così tanto? 
Però per oggi le distrazioni non finiscono qui.
La talpa è una che se ne catafotte, nel senso che è piuttosto impermeabile al pettegolezzo, a quel che fanno gli altri e perfino quando qualcuno, suo malgrado, le racconta qualcosa, ha un sistema di rimozione interno, che elimina il file.
Però c'è una cosa per lei irresistibile.
Se qualcuno, in un tavolo accanto, apre un quaderno e si mette a fare segni sui fogli, lei non capisce più niente. Vorrebbe solo andare lì e vedere cosa sta scrivendo o disegnando o facendo.
Ecco, ora c'è un tipo, dai tratti orientali, che ha preso un caffellatte e anche questo lo rende piuttosto interessante, si è seduto, ha riversato una manciata di penne sul tavolo, non una sola, proprio per farmi dispetto, ha messo in posizione verticale un piccolo ipad, poi ha aperto un blocco in senso orizzontale, con i fogli bianchi e scrive e fa segni come un pazzo, nel senso che sta nel foglio, non si guarda intorno né comprende in quale turbolenza mi sta facendo navigare. Spesso fa anche grossi cerchi. Cosa ci sarà dentro?
Io glielo vorrei dire, dopo avergli chiesto il permesso di sbirciare nel suo blocco, che sono qui per lavorare e che non si fa così. Certe cose si fanno in casa propria, lontani da sguardi talposi.
Come allungare lo sguardo fin lì? E se mi spostassi e andassi a sedermi al tavolo accanto al suo sarebbe sconveniente? 
Accidentaccio!
Ora cerco di lavorare, ma ho forti dubbi sulla mia capacità di concentrazione, già labile di per sé.

Saturday, November 15, 2014

Il manichino.

Oggi, che è sabato, sono andata a fare un workshop di yoga e poi, già che c'ero, ci ho attaccato anche una lezione, per un totale di tre ore.
Perché questa disciplina non conosce vacanza.
Il nome del workshop era ei bi si, che altro non è che ABC. 
Insomma quello che noi chiamiamo volgarmente l'a b c e lo applichiamo un po' a tutto, in tali luoghi raffinati e international si chiama ei bi si e io solo dopo una settimana che mi ero iscritta ho capito che quel che stavo andando a fare era più una cosa semplice e utile, come la sigla suggerisce, che una misteriosa e complicata. 
Ho anche capito che probabilmente io ero partita minimo dal DEF, e il corso di oggi me ne ha dato conferma, donandomi ad esempio un po' di maggiore familiarità con quei termini di cui non capisco un accidente.
Quando partono con tutti i bandas, ad esempio, mi ci viene anche un po' da ridere, perché l'unico che conosco io è 'tacabanda' e, stranamente, non viene usato.
Invece un po' di tacabanda ogni tanto anche lì non guasterebbe.
Poco prima di iniziare la lezione una tipa che sta per laurearsi, cioè dare l'esame finale per diventare insegnante di yoga, si è messa a parlare della meraviglia di questa disciplina. 
E vabbè, grazie, ma ora facciamo lezione.
Alla fine mi chiede.
'Ti andrebbe di farmi da manichino?'
Dopo il primo istante di sorpresa, durato una frazione di secondo, mi ha invaso una sensazione di piacevole interesse.
Il manichino, bello. Senza sapere assolutamente a cosa si riferisse, la parola in sé, manichino, risvegliava la mia curiosità.
Il che accende una luce potente sulla mia mancanza di ambizione, visto che la sola richiesta di fare il manichino, un essere immobile e eventualmente guidato e spostato da altri, mi porta a dire di sì senza approfondire.
Ma voglio sperare che sia accaduto solo per il piacere della diversità.
Chi mai si è sentito chiedere nulla del genere? Vuoi fare il manichino? Certo che sì, lo voglio fare, perché forse mai più nessuno mi farà una domanda simile e perché deve essere qualcosa di divertente per forza.
Naturalmente nella mia testa si trattava anche di attività con fatica pari a zero.
La tipa mi ha poi spiegato che avrei dovuto fare da allieva per il suo esame.
D'accordo.
Non sarò proprio immobile, ma un manichino mica si muove da solo. Lei mi alzerà un braccio, una gamba e io starò lì con gli occhi chiusi a sonnecchiare.
All'uscita la mia insegnante mi ha detto.
'Allora sei stata scelta per fare la modella. Bene'.
Modella? Non ero un manichino?
E siccome la sua espressione era un po' furba, ho voluto chiedere bene di cosa si trattasse.
'Praticamente ti fai una lezione privata, tranquilla'.
Quel tranquilla finale, unito all'espressione mi ha fatto capire che non c'era per niente da stare tranquilli.
'Mi pare di capire che non ci sia nulla di riposante in questa faccenda', ho detto.
'No, per niente' ha risposto lei.
Insomma sarò nelle grinfie nervose di una laureanda, che si gioca tutto il corso sulle mie ossa e sui miei muscoli e che in quei momenti l'unica cosa a cui penserà sarà il suo esame e la bella figura che deve fare.
Probabilmente sarà un incubo, io sarò molto imbarazzata, lei tenterà di farmi fare cose che mi spezzeranno in due e chissà se tornerò mai come prima e anche se so che dovrei essere contenta di aiutare una persona a conseguire il suo pezzo di carta e realizzare il suo sogno, perché questo è lo spirito dello yoga, io non sono così altruista.
Inoltre, bevo cappuccini anziché tè come fanno loro di continuo e non mangio neppure una di quelle mele di cui la ciotola è sempre piena e tutti non fanno che sgranocchiarle mentre a me ricordano quella di biancaneve, che se non l'avesse mangiata si sarebbe risparmiata un sacco di guai.

Friday, November 14, 2014

Strumenti.

Può capitare che si scopra che atteggiamenti, propri, che si pensava di aver superato e dimenticato, si ripresentino.
Che mi ripresentino una me che non mi piace granché.
Allora nasce il disappunto, lo sconcerto, la delusione.
Ma invece non è necessario che nasca tutto ciò. Perché i percorsi non sono mai inutili, non sono inutili i lavori che si fanno, specie quelli su se stessi e non si butta via nulla, nel bene e nel male.
Che vuol dire che si possono anche ripresentare comportamenti che credevo dimenticati e ai quali guardavo anche con un certo presuntuoso distacco, ma in realtà quel che cambia sono gli strumenti a cui posso avere accesso.
Scopro che il bauletto si è riempito di accessori nuovi e che basta aprirlo per trovare oggetti che mi fanno guardare al mondo e alle situazioni in un altro modo e che mi aiutano più di quanto pensassi, che mi fanno sentire più grande e più forte, che mi fanno dire 'beh talpa, mi piaci, non sei male per niente'.
E succede allora, che mentre sono in mezzo alla turbolenza e il bauletto si è aperto davanti a me e mi ha suggerito di prendere gli strumenti e usarli, perché così deve essere, altrimenti non avrebbe senso averli lì, un raggio di sole illumina tutto.
Perché per quanto là fuori tutto possa succedere, sempre è stato così e sempre sarà, perché non siamo padroni del mondo e di quel che succede, il sole resta lì, anche se coperto dalle nuvole, sai che è lì dietro.
Posso sentire i miei passi forti sulla terra e il mio cammino saldo, anche se non conosce direzione, perché importante rimane il percorso, e ogni singola impronta. Da qualche parte arriverò e forse non importa dove.
Perché io, in ogni caso, ci sono.
Esisto.
E non so se sia la verticale a fare tutto questo o Paperino, ma qualunque cosa sia, è la benvenuta.
Ma se ora non esco per andare a scrivere, tutti questi bei discorsi finiscono a gambe all'aria, questo è poco ma sicuro.

Lavoro.

Ieri una mia amica mi ha detto 'si va a scrivere in biblio?'
L'ultima volta e anche unica che avevo tentato la scrittura come atto comunitario non avevo scritto una sola parola e avevo finito per aprire il mio libro e mettermi a leggere, che non guasta mai.
Ieri invece, non sentendo altri segnali, l'ho perfino richiamata.
'Senti io vado, te che fai, vieni?'
'Io ci avevo ripensato, mi ero impigrita, ma se vai tu vengo anch'io'
'Sì sì, io vado'.
E così dopo un po' di ciondolamento ulteriore, un po' di fotelle a un arcobaleno bellissimo che dalla casina il cielo aveva disegnato per me in un arco perfetto, e un tramonto altrettanto fantastico, sono andata.
Lei era già lì, laptop aperto.
Le chiacchiere sono iniziate e una parte del mio cervello pensava 'col cavolo che si fa qualcosa'.
Ma poi, un'altra parte di me, che non so davvero da dove sia spuntata, ha detto 'comunque noi siamo qui per lavorare'.
Non c'è stato bisogno di altro, ognuna si è immersa nella sua scrittura e la cosa ancora più bella è che io non ho idea della cosa su cui sta lavorando lei e viceversa. Ognuna si chiude nel suo mondo e l'unico filo che ci unisce è l'essere lì con un computer aperto allo stesso tavolo.
Poi abbiamo smesso, rimesso tutto nei nostri zainetti e il suo saluto mi ha lasciato stralunata.
'Ciao allora e grazie per avermi fatto lavorare oggi, fosse stato per me non avrei fatto niente'.
Ecco, questo è un film che non si era mai visto e che mai avrei pensato di vedere. Qualcuno che mi ringrazia perché io, la talpa, l'ho spinta a lavorare.
Vuol dire che il mondo sta andando sottosopra e può darsi che c'entrino tutte quelle verticali che sto cercando di fare.
Non c'è altra spiegazione.
Comunque, sono piuttosto preoccupata.

Segni.

Una toppa è stata messa sui buchi del tetto e spero che l'abbiano messa colorata. Ma nessuno ne assicura il funzionamento e una casa asciutta pare utopia irraggiungibile, tanto che mi domando cosa voglia dire tutta questa umidità. Forse non avrei dovuto scrivere un libro dal titolo 'voda'.Nella quiete che sono riuscita a raggiungere (almeno credo) mi sono detta che dovevo guardare ai segni per capire come muovermi. Anzi ho pensato di non fare molto e lasciare che mi si tracciasse un piccolo sentierino.Accanto al portone c'è un'agenzia immobiliare e ho pensato che potesse essere utile entrarci.Questa la risposta della signora alle mie richieste.'No, si eh, non se ne trovano mica. Ce ne sono due (descrizione) contratto transitorio. Chi è che si mette in casa la gente? Gli affitti non li paga nessuno e se uno la vuol vendere ti tocca fare i salti mortali. No, per carità. Senti per ora è così, ridimmi il nome e dammi il numero, se mi capita qualcosa, ma è difficile...comunque ricordamelo te, perché figurati se me ne ricordo io. E ora scusa, ma se potessi uscire di qui perché devo andare via d'urgenza'.'Ah, va bene grazie, tanto era solo per guardarmi intorno. La ringrazio, arrivederci'.E sono fuggita quasi spaventata.Mai avevo sentito risposta tanto rude.Mi sono avviata di nuovo verso la biblioteca da cui nella mattina ero stata strappata causa intervento muratori che mi aspettavano sotto casa.I divani erano tutti occupati e anche i tavoli, quindi mi è toccato andare al bar, un po' stizzita per una volta che avevo deciso di essere seria e precisa e concedermi il luogo sacro e silenzioso. In realtà più un dormitorio.Arrivo su e i tetti che vedevo, che non sono pochi, erano tutti occupati da uomini con secchi colorati. Non un uomo o due, ma innumerevoli. Sembrava un film organizzato apposta, anzi più un cartone animato. Dopo dieci minuti sono spariti tutti.Beh, certo, una talpa può anche decidere di ignorarli i segni o non farci caso, però così risulta un po' difficile.

Tuesday, November 11, 2014

Troppe soluzioni.

Le soluzioni non sono mai troppe, avrei detto fino a ieri.
Ma poi mi è toccato, anche se solo per un paio d'ore, rivedere questa verità intoccabile.
Comunque ieri, stufa dei problemi legati al tetto della mia casa, ho avviato una serie di operazioni.
Mi sono lamentata con la padrona di casa, dicendo che ero decisa a fare un fagotto con le mie cose e partire, che tanto partire è il mio status e questa ne è una dimostrazione.
Ho chiesto intervento al muratore condominiale che da più di un mese ogni tanto viene, si fa un giro e poi se ne va. Inoltre il suo operaio ha più paura a salire sul tetto di quanta ne abbia io, quindi forse dovrei ripararlo da me.
Dopo l'ultima passeggiata del suddetto sul mio tetto, questo si è rifiutato di contenere perfino una sola goccia. La lascia cadere direttamente sulle mie pareti, poi sul pavimento, per poi risalire, se ne ha voglia, in qualche bacinella, al punto da farmi pensare a un racconto di Buzzati in cui una goccia risaliva le scale, tremenda e inesorabile.
Ne deduco che al tetto la sua visita non sia piaciuta per niente.
Ho cercato appartamenti online chiedendo informazioni per alcuni.
A un'ora precisa sono scoccate le reazioni, tutte insieme, tutte verso le cinque, l'ora del tè.
Mi chiamava l'amministratore, il tecnico odiato dal tetto e l'agenzia per propormi appartamenti senza che io avessi scritto il mio numero di telefono, il che pone sul tutto anche una certa aura di mistero, che non guasta mai.
Di fronte a questo troppo mi sono sentita sopraffatta e in tutta risposta sono andata a fare ciò che in questo periodo faccio sempre: una lezione di yoga.
Stamattina all'alba, visto che non  pioveva ho chiesto intervento al tecnico, il quale insiste nel dire che il tetto è scivoloso e per qualche motivo è reticente.
A questo punto, prima di infilarmi nella lezione di yoga dell'alba, ho girato tutto alla proprietaria dell'appartamento e all'amministratore, perché io con tutto il mio da fare, ben più importante, non voglio più disperdere energie fra tetti e tegole, a meno che non sia per andarci a prendere il sole.
Oggi manderanno qualcuno, che non è quello che il mio tetto odia, a mettere un po' di colla nel punto in cui piove.
Io, intanto, mi guardo intorno, perché non bisogna mai essere schiavi, tantomeno di una casa.
Siamo esseri liberi e questa è l'unica cosa da tenere presente.
È per questo che arrivano tante soluzioni tutte insieme, per ricordarci che le vie di uscita sono innumerevoli e che è a quelle che bisogna guardare.
Quindi ora alzo gli occhi al tetto e penso che non ne esiste uno che mi possa imprigionare.
Beh, in realtà ora sono in biblioteca, dove la connessione, strano a dirsi, funziona e sono seduta lontana dalla collezione di Paperino. Umpf!

Monday, November 10, 2014

Il rientro.

Ieri ho affrontato il viaggio interplanetario di ritorno.
La navicella spaziale non era pronta per il lancio, quindi la talpa ha dovuto attendere una mezz'oretta in più perché si attivasse e venisse sputata nell'atmosfera. 
Però poi è accaduto.
Una volta atterrata ho potuto usare i normali mezzi di locomozione che si chiamano gallerie scavate o treni.
Ho mangiato un pezzo di pizza rischiando di perdere il treno perché avevo un quarto d'ora, ma dato il rientro da altro pianeta con parametri spaziali e temporali diversi, non riuscivo a calcolare i tempi. E quando dico non riuscivo intendo in senso letterale. Facevo i conti e non capivo se un quarto d'ora fosse lungo o corto e mi rilassavo mangiando.
Avevo un mal di testa lieve e continuo che mi ricordava la mia provenienza.
Non pensavo ad altro che alla possibilità di riuscire ad infilarmi nella lezione di yoga delle sei, a cui, è evidente, inizio ad attribuire poteri sicuramente superiori a quelli reali. Per questo vedevo in questa lezione l'unica possibilità di ripristino delle mie condizioni.
Il ritardo della navicella aveva messo molto a rischio la possibilità di farcela.
Ma non aveva fatto i conti con la determinazione della talpa.
Che si è precipitata a casa, ha lanciato le cose per le scale, si è cambiata alla velocità della luce, si è riprecipitata giù dalle scale, ha fatto una corsa in bicicletta urlando ai pedoni che si frapponevano fra lei e la lezione e facendoli scansare impauriti e in questo ha pensato che un campanello le sarebbe utile e è giunta lì sudata fradicia, ma giusto in tempo. Si è accasciata sul tappetino e avrebbe dormito volentieri, altro che lezione.
Ma in tal caso sarebbe dovuta rimanere a casa, invece era lì e la lezione iniziava.
L'ha fatta, scoprendo che il viaggio interplanetario rende l'energia tutta spezzettata, e che non basta una lezione a riannodarla, ma apporta un notevole contributo. 
Ha scoperto anche che è più facile svuotare la mente, perché il desiderio di farlo e di essere qui e ora è maggiore.
Ha scoperto che essere su un pavimento terrestre in mezzo a sconosciuti può essere fantastico.
Ha scoperto che forse i problemi non esistono. È solo una questione di punti di vista.
Siccome per due notti era andata a dormire molto tardi, ha scoperto, ma lo sapeva già, che le piace fare la nanna presto e quindi alle nove e mezzo già dormiva.
E tutto è stato fantastico.
Perché, ma anche questo lo sapeva già, il mondo è suo amico.


Sarà.

Sarà perché i viaggi interplanetari mettono a dura prova.
Sarà perché ogni rientro è anche una partenza.
Sarà perché sempre loro, i viaggi interplanetari, abbassano il mio livello di pazienza esiguo già in condizioni normali.
Sarà perché quando si è fuori centro tutto appare più improbabile e anche più probabile.
Sarà che essere ragionevoli non sempre è una buona cosa.
Sarà che sono stufa.
Sarà che essere stufi è anche bello.
Sarà che essere peace and love è bello, ma è bello anche sentirsi un po' agguerriti.
Sarà che il cambiamento repentino, quello che ti fa dire 'ma sì, può essere anche così', è interessante e apre nuove prospettive.
Sarà che le nuove prospettive vengono da una crisi.
Sarà che la crisi può venire anche da una bizzella e le mie quasi sempre da lì vengono.
Sarà che un viaggio interplanetario lascia il segno e dopo nulla è uguale a prima.
Sarà per tutti questi motivi e anche per altri che mi sono stufata di avere l'acqua intorno e sulla testa. E non parlo della pioggia perché quella mi piace, ma non in casa.
Sarà che c'è un limite a tutto.
Sarà per questo che ho fatto una telefonata e comunicato che in una settimana raccolgo le mie cosine e cambio casa, se questa non smette di piangere.
E non è una minaccia, né parole vuote, perché fino a qualche giorno fa il pensiero di poter andare via non mi sfiorava, mentre ora non solo mi sfiora, ma sono davvero pronta a raccattare le mie cose e andare.
Perché non sono più disposta a subordinare la mia tranquillità ai problemi di una tana, per quanto accogliente e piacevole possa essere.
Non c'è luogo che debba minacciare la nostra tranquillità interiore. L'acqua che mi cade costantemente dal tetto lo fa e quindi questo può portarmi a chiudermi la porta alle spalle senza alcun rimpianto.
Perché il mio benessere viene prima di una casa, qualunque essa sia.
E al di là di cosa accadrà, questa nuova attitudine rispetto a questo posto mi rende felice, perché mi sento libera.

Friday, November 7, 2014

Gente che non fa niente.

A una lezione di yoga alle 9.30 del mattino ti aspetti di trovarci tre gatti o forse solo due, più una talpa. Invece arrivi lì e la sala è piena, come sempre.
Lì, nel palazzo della bellezza, tutti vogliono essere presenti.
Ma allora chi lavora?
Parlo di quei lavori dagli orari usuali.
Chiaro che i partecipanti alla lezione appartengono a categorie particolari. Artisti, studenti, stranieri e non saprei.
Tutto questo vuol dire che non sono sola come pensavo, ma che c'è una porzione di mondo, neppure troppo piccina, che gira come me, in ambiti privi di regole e per cui infilarsi in una lezione di yoga alle nove del mattino può essere una priorità.
E anche se sulla verticale non ho fatto molti progressi, forse perché in tal caso non avrei più motivo di andarci, sentir dire 'fermatevi in questa posizione e siate felici del punto che siete riusciti a raggiungere oggi. Ringraziate voi stessi per la pratica' e tutta questa roba zen, mi porta in una dimensione di puro piacere.
Perché io sono abituata a ben altra roba.
Tipo. 'Perché non riesci a mantenere i progressi fatti? Devi essere più concentrata. Se devi venire a lezione così è meglio se stai a casa. Avanti, salta!!!!! Ci vogliono più muscoli qui, sei troppo secca, sei troppo grassa, sei così sei cosà...' e giù piedi che sbattono sui pavimenti e urli e terrorismo. 
Devi soffrire, è la parola d'ordine della danza.
Nello yoga ti dicono che non bisogna mai soffrire, anche mentre hai una gamba sulla testa e ti stai spezzando in due.
Va da sé che in quest'ultima attitudine si può avvertire una leggera ipocrisia, ma questa tendenza al piacere e al volersi bene, è un massaggio continuo.
Inoltre, ci sono posizioni in cui mi sento potente, una guerriera della luce, per dirla alla Coelho.
Il punto è che lo yoga è qualcosa che mi appartiene. È probabile che nella mia vita precedente facesse parte di me in maniera consistente.
Ma anche gli urli della danza mi appartengono.
Sono luoghi in cui porto tutta me stessa.
Comunque il mondo pullula di gente che non fa niente, o per dirla in un altro modo, che dedica il suo tempo a quel che forse conta davvero.
E questo mi fa sentire molto meglio.

Wednesday, November 5, 2014

Le paroline appiccicate.

Oggi nella talpa city piove.
Fosse tutto qui non ci farei neanche caso, ma il punto è che non piove solo fuori ma anche nella casina e non un po'. Piove dal tetto come se ci fosse un rubinetto aperto. 
E anche se non voglio disturbare me stessa con questa roba qui, ogni tanto allungo un braccio per prendere qualcosa e lo infilo sotto l'acqua.
Quindi sono uscita, ma tanto sarei uscita lo stesso.
Ma la pioggia in casa mi fa l'effetto di quando per qualche motivo eccezionale non si andava a scuola.
Ho chiuso lo cucina, chiuso tutto e con la scusa che la casa non è agibile saltello nelle pozzanghere esterne.
Ma in questa specie di libreria in cui sono venuta a scrivere c'è una connessione che funziona, il che mi porta al cazzeggio totale.
Da qui, verso sera, saltellerò direttamente nella magnifica sala dello yoga.
Però a parte questa conversazione iniziale sul più o meno umido, c'era una cosa che volevo dire.
Io ho un cellulare touch, come quasi tutto il resto del mondo. E su questi dispositivi moderni per copiare si spinge ben benino come se si volesse penetrare dentro, le paroline si appiccicano sul dito e poi tu le appiccichi da un'altra parte.
Io spingo col dito indice e quando poi le riappiccico da un'altra parte è ovvio che usi lo stesso dito, perché le paroline sono lì.
Però accade anche un'altra cosa.
Che a volte quando vado a riappiccicare, mi appaiono paroline diverse da quelle appena raccolte, che magari avevo tappato nei giorni precedenti.
Oggi mi è successo e allora mi sono guardata il dito.
Ecco, apparentemente non c'è nulla, ma è ovvio che invece c'è molto più di quanto non sembri.
La domanda è, quanti miliardi di paroline ci sono, appiccicati sul mio ditino?
E c'è un modo per cancellarle?
E possono dare problemi, a lungo termine, tipo trasformarlo in qualcosa di diverso che non saprei prevedere?
E il mio dito, a questo punto, è o non è la parte più erudita del mio corpo?
E potrebbe condividere la sua conoscenza anche con altre dita, altre parti del corpo mio o di altri?
Va da sé che non è più un dito normale e che di questo bisogna prendere atto.

Monday, November 3, 2014

I perché.

I perché sono strani e non sempre significativi.
Faccio danza perché.
Alla fine posso andare in un bar che è proprio lì di fronte dove fanno panini con dentro molto prosciutto o salame o quel che sia e a me piacciono i bar generosi e fanno anche un buonissimo caffellatte.
Perché la doccia dopo la lezione è fantastica.
E perché quando sono tornata in sala, qualche settimana fa, dopo mesi di pausa, mi pareva di non essere mai uscita e mentre stupita mi domandavo come fosse possibile ho capito che per me è una forma di casa, uno dei luoghi più sicuri della mia vita e forse quello che mi ha fatto sentire al mio posto quando un posto non ce l'avevo e tutto era burrascoso. Perché rifugio non è necessariamente famiglia, ma è dove ci sentiamo felici. La danza ha sempre fatto questo per me.
Ma tutto questo è anche insidioso, perché casa è abitudine e allora sento che anche lì, in quel luogo così familiare e che mi fa sentire fiduciosa dentro al mio corpo, devo andare oltre i limiti dell'abitudine e della sicurezza.
E questo si fa entrando lì ogni volta come se fosse la prima.
Faccio yoga perché.
Non lo so, per caso.
Però nulla succede per caso.
Allora perché l'anno scorso una compagna di danza mi parlò della meditazione danzata e io non ne avevo mai sentito parlare, ma forse quelle parole si fecero strada in me e quale esercizio di meditazione migliore per una come me? Che quando provo a meditare stando seduta e zitta e ferma mi vengono in mente le peggio stupidaggini e mi ci viene anche da ridere per come passano di lì al solo scopo di distrarmi.
Perché lo yoga contiene qualcosa di misterioso che ti afferra ma non sai cos'è.
Perché sento il mio corpo strongabbestia e se riuscissi a rinforzare lo spirito allo stesso modo, credo che potrei sentirmi come mai nella mia vita e questo mi attrae terribilmente.
Perché è come il liquido nei vasi comunicanti, ogni parte dona equilibrio anche all'altra, ma questo non è molto vero. In realtà nello yoga gli equilibri li perdo tutti e non so perché, per poi ritrovarli nella danza in una consapevolezza diversa. 
Ma sopra tutto questo c'è un motivo molto più grande che dimostra che la vita segue vie molto, ma molto tortuose.
Da anni, moltissimi anni, sto cercando di imparare a fare la verticale e è il mio cruccio, perché non ci riesco, ma soprattuto perché ho molta paura e è come se sentissi che quella paura lì nasconde delle cose e che andrebbe superata. Altrimenti non si spiegherebbe questo accanimento, dato che si può vivere benissimo anche senza verticale, come mi disse una volta una mia amica. Ma le paure sono dure a morire.
L'altra mattina, l'insegnante ci ha detto di provare quella sulla testa. Io l'ho guardata e ho riso scettica 'sono anni che ci provo. no way for me'.
E lei mi ha fatto vedere e io, senza grossa difficoltà ho portato il bacino sopra la testa. Sono stata invasa da una felicità profonda, sono tornata giù, l'ho ringraziata mille volte e le ho detto 'tu non sai cosa significhi per me' e le altre mi guardavano alquanto perplesse. Certo non è la verticale completa, ma è un passo che non avevo mai raggiunto.
Ieri sera un insegnante maschio più magro di me, ce l'ha fatta fare e non so perché sia venuto accanto a me, perché eravamo in tanti e mi ha fatto fare lo stesso esercizio e io, prima di farlo gli ho detto 'tu non lo sai, ma questo è il mio scopo'. 'Lo scopo della vita' ha detto lui? E io ho detto 'beh sì, lo so che può sembrare stupido. E lui ha risposto 'No, non ero ironico, è un bellissimo scopo e andare in verticale è magnifico e qui imparerai'.
Beh, non sono riuscita a portare su le gambe, quando sono tornata giù ho tirato un pugno stizzita sul tappetino e lui mi ha guardata con un po' di rimprovero perché in questi luoghi non si arrabbiano mai e hanno molta pazienza e tutto è pace e amore e allora ho unito le mani e abbassato gli occhi e dovevo essere comica perché lui ha sorriso e all'uscita mi ha detto 'ti sei arrabbiata, ma devi avere pazienza, qui imparerai e se lo dicono i maestri, ti puoi fidare'.
Io ho taciuto, avrei voluto dire che anche gli altri erano maestri e fare un bel po' di polemica, ma il punto è che credo anche io che qui imparerò e che questo sia esattamente il motivo per cui sono lì, in quelle lezioni e forse anche su questa terra. 
Del resto è un motivo più che degno, no?