Non
so dire se le domande che mi faccio siano troppe o poche, ma so che
me ne faccio alcune.
Una
di queste ricorre spesso in questo ultimo periodo e non è neutra, ma
porta con sé una qualità, come direbbe il mio insegnante Michael.
Lo stupore.
Accade
durante le lezioni di danza, dove è naturale che mentre lavoro mi
domandi cosa stia comportando la pratica dello yoga.
È
ovvio che me lo chieda. Da sempre, per imparare la danza non ho
usato altro che lei stessa, la danza. Cosa succede a un corpo se di
punto in bianco inizia una nuova disciplina che è diversa, ma va a
lavorare in un modo che presenta delle affinità e con lo stesso
strumento, che è sempre il corpo, e non quello di qualcun altro, ma
il mio.
La
domanda che mi faccio in ogni esercizio è: mi toglie o mi aggiunge?
E cosa?
E
siccome la risposta finora è che mi aggiunge e basta, questo mi
turba. Primo perché è vero che non siamo mai contenti e secondo
perché non esiste nulla che aggiunga e basta, è necessario che
tolga anche, è necessaria la sua parte oscura, negativa, perché
esista. Ma io non la trovo.
Sono
sfumature, sensazioni di frazioni di secondo che non saprei neppure
descrivere, percezioni diverse, attimi minuscoli che mi parlano di
mondi nuovi all'interno del mio corpo che vengono da lì, da
quell'altra parte.
Due
su tutte spiccano però in maniera più consistente.
La
forza del centro, che credevo di avere, ma non è la stessa. Perché
c'è centro e centro. C'è quello a cui devi pensare e che è
attaccato a tutto il resto e c'è quello che è slegato da tutto, o
meglio per mezzo del quale puoi slegare tutto. E grazie a quell'unico
puntino, ti senti libera, diversa. Puoi anche andare fuori asse,
perché lui sa dove riportarti. È più che un centro, è un punto di
fiducia attorno al quale puoi far ruotare tutto il resto come più ti
aggrada. È una cosa inesistente, non puoi vederla, ma c'è e è come
un fuoco che ti fa sentire presente e consapevole negli esercizi. È un punto a cui puoi attaccarti e che ti tiene come una mano che non ti molla mai, ma non ti trattiene e non ti limita.
E
poi ce n'è un'altra forse ancora più considerevole.
Tendevo
a porre la mia attenzione sull'inizio e la fine di un esercizio. O
meglio, in ogni esercizio ci sono dei punti chiave, delle tappe, che
sono quelle più importanti, o almeno così pensavo, che vuol dire
badare poco al passaggio fra l'una e l'altra. Invece lì in mezzo c'è un mondo. Significa non mollare mai, significa curare il
percorso, significa guidare l'energia.
Credo di aver scoperto che sono le fasi di transizione a dare senso
al punto di arrivo, anche al più minuscolo e quel mondo lì, finché
non lo scopri, è sconosciuto, ma quando inizi a vederlo capisci che
ti stai perdendo il meglio, che c'è un sacco di roba a cui non
facevi caso e che valeva la pena scoprire. È come quando inizi a
leggere i fumetti che fino al giorno prima avevi ignorato perché non
ti interessavano e scopri che è la cosa più bella del mondo e ce ne
sono scatole piene tutte per te da leggere. E allora la vita diventa
bellissima.
Questo
sono le transizioni. Tra un passé e una quinta, c'è un piede che
torna giù e che ha un sacco di roba da raccontare.
Naturalmente,
la domanda che segue è: cosa è più importante, i punti di arrivo o
le transizioni, appunto, il modo in cui ci arrivi?
Perché
il modo in cui ci arrivi fa una grandissima differenza.
Curare
quei millimetri può cambiare la vita.
Perché
può cambiare un passé.
E
i mondi sono intercambiabili.
Perché forse non c'è confine tra l'uno e l'altro.
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