Saturday, November 29, 2014

Le transizioni.

Non so dire se le domande che mi faccio siano troppe o poche, ma so che me ne faccio alcune.
Una di queste ricorre spesso in questo ultimo periodo e non è neutra, ma porta con sé una qualità, come direbbe il mio insegnante Michael. Lo stupore.
Accade durante le lezioni di danza, dove è naturale che mentre lavoro mi domandi cosa stia comportando la pratica dello yoga.
È ovvio che me lo chieda. Da sempre, per imparare la danza non ho usato altro che lei stessa, la danza. Cosa succede a un corpo se di punto in bianco inizia una nuova disciplina che è diversa, ma va a lavorare in un modo che presenta delle affinità e con lo stesso strumento, che è sempre il corpo, e non quello di qualcun altro, ma il mio.
La domanda che mi faccio in ogni esercizio è: mi toglie o mi aggiunge? E cosa?
E siccome la risposta finora è che mi aggiunge e basta, questo mi turba. Primo perché è vero che non siamo mai contenti e secondo perché non esiste nulla che aggiunga e basta, è necessario che tolga anche, è necessaria la sua parte oscura, negativa, perché esista. Ma io non la trovo.
Sono sfumature, sensazioni di frazioni di secondo che non saprei neppure descrivere, percezioni diverse, attimi minuscoli che mi parlano di mondi nuovi all'interno del mio corpo che vengono da lì, da quell'altra parte.
Due su tutte spiccano però in maniera più consistente.
La forza del centro, che credevo di avere, ma non è la stessa. Perché c'è centro e centro. C'è quello a cui devi pensare e che è attaccato a tutto il resto e c'è quello che è slegato da tutto, o meglio per mezzo del quale puoi slegare tutto. E grazie a quell'unico puntino, ti senti libera, diversa. Puoi anche andare fuori asse, perché lui sa dove riportarti. È più che un centro, è un punto di fiducia attorno al quale puoi far ruotare tutto il resto come più ti aggrada. È una cosa inesistente, non puoi vederla, ma c'è e è come un fuoco che ti fa sentire presente e consapevole negli esercizi. È un punto a cui puoi attaccarti e che ti tiene come una mano che non ti molla mai, ma non ti trattiene e non ti limita.
E poi ce n'è un'altra forse ancora più considerevole.
Tendevo a porre la mia attenzione sull'inizio e la fine di un esercizio. O meglio, in ogni esercizio ci sono dei punti chiave, delle tappe, che sono quelle più importanti, o almeno così pensavo, che vuol dire badare poco al passaggio fra l'una e l'altra. Invece lì in mezzo c'è un mondo. Significa non mollare mai, significa curare il percorso, significa guidare l'energia.
Credo di aver scoperto che sono le fasi di transizione a dare senso al punto di arrivo, anche al più minuscolo e quel mondo lì, finché non lo scopri, è sconosciuto, ma quando inizi a vederlo capisci che ti stai perdendo il meglio, che c'è un sacco di roba a cui non facevi caso e che valeva la pena scoprire. È come quando inizi a leggere i fumetti che fino al giorno prima avevi ignorato perché non ti interessavano e scopri che è la cosa più bella del mondo e ce ne sono scatole piene tutte per te da leggere. E allora la vita diventa bellissima.
Questo sono le transizioni. Tra un passé e una quinta, c'è un piede che torna giù e che ha un sacco di roba da raccontare.
Naturalmente, la domanda che segue è: cosa è più importante, i punti di arrivo o le transizioni, appunto, il modo in cui ci arrivi?
Perché il modo in cui ci arrivi fa una grandissima differenza.
Curare quei millimetri può cambiare la vita.
Perché può cambiare un passé.
E i mondi sono intercambiabili.
Perché forse non c'è confine tra l'uno e l'altro.

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