La canzone che sto ascoltando ora si intitola keep it simple. La fa facile lei.
Ieri mi sono turbata facendomi delle domande per le quali non avevo risposte. Non che questo sia una novità, avere risposte dico, ma accade che a volte mi ci turbi e a volte no.
La domanda fondamentale era per quale motivo faccio tutto quello che sto facendo, per chi, per cosa, per quale motivo. Non lo so. Come ho risolto? Dicendo alla mia testa di smettere di farsi domande stupide e guardandomi intorno per poter fare delle scoperte, anche piccole, che potessero distrarmi dai fastidiosi quesiti.
La prima è stata che il vaso è molto grande e forse l'avrei voluto più piccino, ma poi ho visto che è ottimo per appoggiarci contro il volume del fumetto e disegnare, quindi è perfetto così. Prima di averlo qui, su questo tavolo, non avrei mai potuto saperlo.
Poi ho scoperto che permettere a me stessa di sbagliare è formidabile. In quale ambito? In tutti. La concessione a sbagliare. Non è uno scoperta di oggi e neppure di ieri, non è fresca di giornata insomma, risale a un po' di tempo fa. Ma ormai conosco il meccanismo, le scoperte si affacciano rapide e si nascondono così velocemente che a malapena mi accorgo di loro, ma poi tornano. Quell'avvisaglia che io ignoro sempre si ripresenterà in un modo più strutturato, garantito e lo farà quando vuole lei.
La concessione a sbagliare suppongo dovrebbe essere utile nei processi di apprendimento, che vuol dire che a seguito di tale scoperta dovrei imparare di più e meglio, forse non più velocemente. Ecco. Io non sono ancora arrivata alla seconda puntata della scoperta quindi non so a cosa serva, ma di sicuro un effetto meraviglioso ce l'ha. Ogni volta che sbaglio (spesso, diciamo quasi sempre) mi dico 'brava talpa, anzi bravissima, hai sbagliato ma non importa, anzi è quasi meglio così. Continua e ti troverai benissimo', il che è fantastico, ma temo che mi stia un po' approfittando dell'acquisizione. Ma non si può essere perfette.
Un'altra scoperta riguarda il mio tipo di distrazioni. Studi recenti e meno recenti riconoscono nei dispositivi elettronici, negli smart phone, nel web i maggiori responsabili dell'incapacità di concentrarsi su una cosa sola e starci finché non si finisce. Una, una per volta. Inoltre pare sia la nuova forma di dipendenza, subdola perché a differenza di alcool e sigarette uno mica ci pensa che si sta schiantando il cervello in un cellulare. Io non voglio discutere degli studi, se siano giusti o no, ognuno faccia quello che vuole. Pare anche che il perdersi nel cellulare bruci una quantità di minuti impressionante, che volano via senza che ne abbiamo coscienza. Ma questo problema riguarda chi pensa che il tempo si conti con l'orologio e con minuti secondi e ore, quindi non riguarda me che la penso molto diversamente. Il tempo è magico e dunque elastico, e lo si può allargare quanto si vuole e quando imparerò a creare aperture spazio temporali non si sa cosa potrò combinare. Al momento non ci sto neppure provando, ma non conto il tempo con gli orologi.
Però, tornando al tema principale, dipendenze e distrazioni, quando leggo questa roba penso che il problema non mi riguardi, il cellulare lo tengo addirittura in un'altra stanza e nel web ci sto il giusto, perché dopo un po' mi viene a noia. Quindi che problemi dovrei mai avere? Tutto questo riguarda la capacità di concentrarsi su quello che si sta facendo. Concentrarsi. Stare su quella finché non si è finito. Io ieri mi sono alzata circa centoventi volte per provare le pirouettes, almeno quattro a destra e quattro a sinistra. E poi ogni volta che faccio una cosa penso che ne vorrei fare mille altre meno quella che sto facendo. Quindi basta sostituire cellulare con pirouettes e richiami subdoli di qualunque genere per capire che sono dipendente non allo stesso modo, ma centoventi volte di più di chi dà un'occhiatina al suo cellulare, che sarà anche più utile.
Ad esempio stasera dovrei dichiarare chiuso tutto, la scrittura, il disegno, la chitarra per le sei e mezza, massimo sette, perché poi devo andare a uno spettacolo a teatro e dovrei già essere un bel pezzo avanti nel mio lavoro e invece dove sono? Qui. È proprio in questi frangenti che comincio a farmi venire quei dubbi in cui mi chiedo per chi faccio tutto quello che faccio, così se non faccio niente mi sento giustificata. Questo dovrebbe raccontarmi qualcosa, ma a volte non mi piace ascoltare.
L'ultima scoperta che ho fatto ieri , anzi rinfrescato, riguarda un verbo che ho usato proprio ora, quassù. Ho detto 'devo andare a teatro'.
Qualche anno fa un ragazzo spagnolo con cui facevo un lavoro in teatro mi fece conoscere quello che viene chiamato 'linguaggio giraffa'. Io, tanto per cambiare, comprai anche un libro sull'argomento. Lui mi correggeva tutte le volte che dicevo 'devo', perché andrebbe sostituito con voglio, secondo quella giraffa.
Non devo andare a teatro, ma voglio andare a teatro.
Ha senso. Chi mi obbliga ad andare a teatro? Nessuno, io voglio andarci. Ma probabilmente l'uso del verbo volere accende una luce anche su ciò che si vuole davvero, insomma la giraffa dà molta importanza ai termini che si usano, specie quelli che diventano modi di dire sul cui significato non si riflette più. Io però non ho imparato niente, perché continuo a dire devo come se nulla fosse. Ma grazie a quella regoletta che recita 'brava talpa, anzi bravissima, anche se sbagli non importa, anzi è necessario' probabilmente continuerò a dire devo.
Ecco, questo è un estratto di tutto quello che mi sono raccontata ieri per uscire dal pomeriggio di dubbi e di domande senza risposta.
Forse sarebbe stato più semplice tenermi il dubbio.
Come dice la canzone, keep it simple.
Ieri mi sono turbata facendomi delle domande per le quali non avevo risposte. Non che questo sia una novità, avere risposte dico, ma accade che a volte mi ci turbi e a volte no.
La domanda fondamentale era per quale motivo faccio tutto quello che sto facendo, per chi, per cosa, per quale motivo. Non lo so. Come ho risolto? Dicendo alla mia testa di smettere di farsi domande stupide e guardandomi intorno per poter fare delle scoperte, anche piccole, che potessero distrarmi dai fastidiosi quesiti.
La prima è stata che il vaso è molto grande e forse l'avrei voluto più piccino, ma poi ho visto che è ottimo per appoggiarci contro il volume del fumetto e disegnare, quindi è perfetto così. Prima di averlo qui, su questo tavolo, non avrei mai potuto saperlo.
Poi ho scoperto che permettere a me stessa di sbagliare è formidabile. In quale ambito? In tutti. La concessione a sbagliare. Non è uno scoperta di oggi e neppure di ieri, non è fresca di giornata insomma, risale a un po' di tempo fa. Ma ormai conosco il meccanismo, le scoperte si affacciano rapide e si nascondono così velocemente che a malapena mi accorgo di loro, ma poi tornano. Quell'avvisaglia che io ignoro sempre si ripresenterà in un modo più strutturato, garantito e lo farà quando vuole lei.
La concessione a sbagliare suppongo dovrebbe essere utile nei processi di apprendimento, che vuol dire che a seguito di tale scoperta dovrei imparare di più e meglio, forse non più velocemente. Ecco. Io non sono ancora arrivata alla seconda puntata della scoperta quindi non so a cosa serva, ma di sicuro un effetto meraviglioso ce l'ha. Ogni volta che sbaglio (spesso, diciamo quasi sempre) mi dico 'brava talpa, anzi bravissima, hai sbagliato ma non importa, anzi è quasi meglio così. Continua e ti troverai benissimo', il che è fantastico, ma temo che mi stia un po' approfittando dell'acquisizione. Ma non si può essere perfette.
Un'altra scoperta riguarda il mio tipo di distrazioni. Studi recenti e meno recenti riconoscono nei dispositivi elettronici, negli smart phone, nel web i maggiori responsabili dell'incapacità di concentrarsi su una cosa sola e starci finché non si finisce. Una, una per volta. Inoltre pare sia la nuova forma di dipendenza, subdola perché a differenza di alcool e sigarette uno mica ci pensa che si sta schiantando il cervello in un cellulare. Io non voglio discutere degli studi, se siano giusti o no, ognuno faccia quello che vuole. Pare anche che il perdersi nel cellulare bruci una quantità di minuti impressionante, che volano via senza che ne abbiamo coscienza. Ma questo problema riguarda chi pensa che il tempo si conti con l'orologio e con minuti secondi e ore, quindi non riguarda me che la penso molto diversamente. Il tempo è magico e dunque elastico, e lo si può allargare quanto si vuole e quando imparerò a creare aperture spazio temporali non si sa cosa potrò combinare. Al momento non ci sto neppure provando, ma non conto il tempo con gli orologi.
Però, tornando al tema principale, dipendenze e distrazioni, quando leggo questa roba penso che il problema non mi riguardi, il cellulare lo tengo addirittura in un'altra stanza e nel web ci sto il giusto, perché dopo un po' mi viene a noia. Quindi che problemi dovrei mai avere? Tutto questo riguarda la capacità di concentrarsi su quello che si sta facendo. Concentrarsi. Stare su quella finché non si è finito. Io ieri mi sono alzata circa centoventi volte per provare le pirouettes, almeno quattro a destra e quattro a sinistra. E poi ogni volta che faccio una cosa penso che ne vorrei fare mille altre meno quella che sto facendo. Quindi basta sostituire cellulare con pirouettes e richiami subdoli di qualunque genere per capire che sono dipendente non allo stesso modo, ma centoventi volte di più di chi dà un'occhiatina al suo cellulare, che sarà anche più utile.
Ad esempio stasera dovrei dichiarare chiuso tutto, la scrittura, il disegno, la chitarra per le sei e mezza, massimo sette, perché poi devo andare a uno spettacolo a teatro e dovrei già essere un bel pezzo avanti nel mio lavoro e invece dove sono? Qui. È proprio in questi frangenti che comincio a farmi venire quei dubbi in cui mi chiedo per chi faccio tutto quello che faccio, così se non faccio niente mi sento giustificata. Questo dovrebbe raccontarmi qualcosa, ma a volte non mi piace ascoltare.
L'ultima scoperta che ho fatto ieri , anzi rinfrescato, riguarda un verbo che ho usato proprio ora, quassù. Ho detto 'devo andare a teatro'.
Qualche anno fa un ragazzo spagnolo con cui facevo un lavoro in teatro mi fece conoscere quello che viene chiamato 'linguaggio giraffa'. Io, tanto per cambiare, comprai anche un libro sull'argomento. Lui mi correggeva tutte le volte che dicevo 'devo', perché andrebbe sostituito con voglio, secondo quella giraffa.
Non devo andare a teatro, ma voglio andare a teatro.
Ha senso. Chi mi obbliga ad andare a teatro? Nessuno, io voglio andarci. Ma probabilmente l'uso del verbo volere accende una luce anche su ciò che si vuole davvero, insomma la giraffa dà molta importanza ai termini che si usano, specie quelli che diventano modi di dire sul cui significato non si riflette più. Io però non ho imparato niente, perché continuo a dire devo come se nulla fosse. Ma grazie a quella regoletta che recita 'brava talpa, anzi bravissima, anche se sbagli non importa, anzi è necessario' probabilmente continuerò a dire devo.
Ecco, questo è un estratto di tutto quello che mi sono raccontata ieri per uscire dal pomeriggio di dubbi e di domande senza risposta.
Forse sarebbe stato più semplice tenermi il dubbio.
Come dice la canzone, keep it simple.
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